Foto: Bianca Rizzi, l'architetta
Testo: Lorenza Gentile, la scrittrice
Metti una giornata di sole invernale di quelle con la luce che riverbera abbagliante scaldando l'aria quel che basta per farti sentire bene solo per il fatto di stare al mondo. Metti Vico Magistretti, uno dei più importanti designer italiani, dal tocco colorato e assolutamente originale. Metti quello che è stato il suo studio per sessant'anni di carriera, che oggi ospita la Fondazione Magistretti, nel centro storico di una città in costante movimento come Milano, per l'esattezza davanti a una piazzetta deliziosa, quella del Conservatorio e della Basilica di Santa Maria della Passione. Mettici la mostra Magistretti Revisited. Mettici noi, una fotografa e una scrittrice, come sempre in cerca di storie, e Margherita Pellino, nipote di Vico, nonché responsabile dell’archivio storico della Fondazione (676 progetti design e architettura, disponibili anche online)... Ecco a voi il risultato!
Entriamo raggianti, incuriosite e un po' intimidite nel palazzo che ha ospitato la nascita dell'Italian Design. Non è certo una location qualunque: il palazzo, con tanto di rigoglioso giardino interno, è bellissimo, l’affaccio è spettacolare e se non amassimo questa città alla follia diremmo: “Non sembra neanche di essere a Milano.” È la Milano più bella, sicuramente, e lo sapeva benissimo anche Vico che, alla finestra del suo studio aveva fissato uno specchietto per poter ammirare la basilica, la piazzetta, e il suo bassotto... che si stendeva a prendere il sole in mezzo alla strada, in una città quasi senza macchine!
Prima di essere il suo studio, era lo studio di suo padre, Pier Giulio Magistretti, importante architetto che ha realizzato anche questo edificio, oltre nientedimeno che la Galleria del Corso, il Palazzo Bolchini e il Palazzo dell'Arengario. Vico, scopriremo, ha vissuto per un po’ in questo stesso palazzo, dopo il matrimonio con sua moglie Paola. Dopo il divorzio si è trasferito nel palazzo accanto, realizzato da lui!, e poi stabilmente in via del Gesù.
Lo studio ha una porta semplice e minimalista, proprio come ci si aspetta. Entriamo e ad accoglierci c'è Margherita.
Margherita è una donna alla mano, dalla battuta facile, che ama sdrammatizzare, ma che lascia anche trasparire una forte determinazione e una serietà quasi tagliente quando si parla del lavoro di Magistretti, che nonostante sia suo nonno, lei chiama sempre e solo Vico. Il suo ruolo alla Fondazione è quello di occuparsi dell’archivio, ragione per cui è a conoscenza di vita, morte e miracoli del grande designer milanese. Oltre che una visita guidata alla mostra, ci offre una bella chiacchierata, di cui le siamo davvero grate.
“Tutto era previsto per il 2020, anno del suo centenario” ci spiega Margherita. “L’idea era quella di celebrarlo con due mostre importanti. Una, alla Triennale di Milano: una retrospettiva in cui, per la prima volta, si espone anche il suo lavoro di architetto e non solo di designer. L’altra, molto più intima, qui alla Fondazione, per raccontarlo nel suo spazio. Due mostre diverse e complementari.”
Ci aggiriamo curiosissime. È un posto creativo, simpatico e serio allo stesso tempo. Ci sono taccuini, agende, un telefono antico, foto e cartoline, ritagli di giornale, pennarelli, timbri, matite, giocattoli di legno, progetti, oggetti... ogni cosa ci suggerisce una storia.
“Nel 2010, quando nasce la Fondazione, si decide di modificare la grande stanza d'ingresso, affinché diventi una scatola bianca che possa ospitare le mostre e venire incontro alle nuove esigenze dello spazio come fondazione. Abbiamo invece preservato praticamente com'era lo studio di Vico Magistretti e la sala riunioni” L’idea alla base di questa mostra è di cercare di rievocare lo studio così com'era. "Siamo una famiglia di accumulatori seriali, quindi abbiamo tenuto praticamente tutti gli arredi originali." Chi non avrebbe fatto lo stesso? Fossimo state al loro posto non avremmo buttato neanche l'involucro di una gomma da masticare. Non si sa mai che dentro ci fosse qualche appunto!
Lo spazio è stato allestito con un gioco di presenza e assenza. I segni rossi sul pavimento indicano come erano disposti gli arredi di un tempo. “Non è una scena del crimine di CSI", precisa Margherita ridendo. Gli arredi originali diventano contenitori, ospitano disegni, fotografie, articoli di giornale e oggetti, come gli occhiali di Vico sul tecnigrafo del geometra Montella, pilastro portante dello studio, come scopriremo in seguito. Le fotografie dell'archivio mostrano come sono cambiati nel tempo sia Vico che lo spazio nel tempo.
La mostra è incentrata su due aspetti diversi e complementari: lo spazio e la sua trasformazione, grazie appunto agli oggetti fisici e alle fotografie, e le parole. I pannelli (rigorosamente rossi) offrono citazioni tratte da interviste, articoli, diari e lettere e sono scritti con la sua stessa grafia che le designer Valentina Cerra e Chiara Corbani hanno trasformato in un font vero e proprio. Si chiama font Magistretti, ça va sans dire.
“Vico, giovane studente di architettura, torna in Italia alla fine della seconda guerra mondiale, dopo una parentesi svizzera” ci racconta Margherita, “Milano è una città distrutta, ma piena di iniziative, frizzante. “Tutti correvano” dice lui, che si trova con una madre vedova, un fratello, una sorella e una moglie. Ha bisogno di lavorare. Una volta laureato in architettura, eredita lo studio del padre.” Siamo nel 1946, Vico ha ventisei anni, si è appena sposato con Paola. Milano è una città dove gli architetti laureati sono pochi e si riuniscono. Lo scambio sul piano creativo e professionale è per lui fondamentale e fonte di grande entusiasmo. Insisterà su questo punto per tutta la sua carriera. Vico e la moglie fotografano la città distrutta, ma piena di energia e possibilità, regalandoci un racconto unico di Milano e di un periodo storico lontano al quale però dobbiamo tanto.
“L’Italian design è nato da noi architetti” dice Vico, “che avevamo bisogno degli oggetti per arredare le case che stavamo sistemando”. Non è un caso che il design nasca a Milano. In questo clima di forte propulsione innovativa, creatività e collaborazione i clienti commissionano progetti agli architetti a più non posso e questi iniziano a rivolgersi agli artigiani perché realizzino oggetti da loro disegnati per le case che gli sono state commissionate. Ma la produzione ad hoc è solo l’inizio del capitolo, che prosegue con l’entrata in scena delle aziende e l’avviamento della produzione di oggetti di design in serie, che accende il vero interesse di Vico.
Da un lato la vecchia cassettiera per l'archivio riposizionata dov'era stata una volta, dall'altro una nuova con sopra l'ipad dove si può consultare il sito dell'archivio.
Quando è nata la Fondazione Magistretti, il primo grande tema è stato fare ordine nell’archivio di uomo che ha lavorato sessant’anni solo con carta e penna. E per carta intendiamo tutti i tipi di carta. La mente di Vico era sempre all'opera. Se gli veniva un'idea ma non aveva il taccuino, la buttava giù su qualsiasi cosa trovasse a portata di mano, anche fosse la carta d'involucro di un sapone.
"Il pilastro portante dello studio era, come abbiamo detto, il geometra Montella, che ha lavorato a fianco di Vico dai primi anni del 1950 al 2003. Arrivava in ufficio con Unità sotto braccio e un pacchetto di sigarette MS. Lo studio Magistretti erano loro due. “Faccio l’architetto non il manager,” ha commentato Vico, quando gli hanno chiesto perché non si allargava. Lui e il geometra Montella erano uomini analogici. Come massima espressione tecnologica usavano il fax. Solo nel 2003, quando il geometra ha avuto un problema di salute, è subentrato un giovane architetto che ha portato un computer.”
Cerchiamo di immaginare come dev’essere stato e guardandoci intorno non è poi così difficile. Non siamo così stupite che grandi invenzioni creative siano nate in un’epoca così lontana dalla nostra, in cui si aveva più tempo e più capacità di concentrazione.
“Il mio lavoro consiste nel dare dei concetti, diceva mio nonno. Arrivava alle riunioni senza uno straccio di disegno. Mai visto un disegno tecnico dello Studio Magistretti. Faceva un disegno di massima per mostrare di cosa stava parlando, poi seguiva tutto il processo, in team con l’azienda. “Il design si fa chiacchierando” diceva sempre. Aveva lo stesso atteggiamento con l’architettura. Sull’esecutivo di cose specifiche, tipo l’impianto idraulico, si affidava ad altri. Lui parlava per concetti.”
“La semplicità è la cosa più complicata del mondo”, era uno dei motti di Vico. Quanto è vero!
Il salotto spettacolare di casa di Vico in via del Gesù. Quanto vorremmo poter riavvolgere la pellicola e fargli una visitina!
Vico amava il suo lavoro, ha sempre lavorato, fino alla fine, ma passava molto tempo anche con la famiglia, il weekend giocava a golf. Non rinunciava mai al suo riposino dopo pranzo.
“Un giorno della settimana io e mio fratello ci scapicollavamo dopo scuola per arrivare da lui a un orario decente e pranzare insieme, perché alle 14.30 andava a fare il riposino. Vico non sapeva cucinare e non capiva niente di cucina. Era capacissimo di offrirci del risotto liofilizzato. Cucinare con l’aglio era vietato a casa sua, per via dell’odore, per dire. A pranzo ci parlava del suo lavoro (non penso fosse pienamente consapevole della sua grandezza), parlava di calcio senza capirci niente, rompeva sull’importanza dell’inglese. Londra per lui era tutto quello che Milano non era più. Si ricordava di una Milano pazzesca, fatta di condivisioni, di incontri, contro una Milano degli anni ’90 che secondo lui era la culla della volgarità. “Cosa avrò mai da dire con le persone che passano il tempo a guardare la tv oggi in Italia,” diceva. La trovava una città diventata solitaria, in cui si era smesso di incontrarsi. “Un tempo ci incontravamo per parlare dei progetti, adesso non so più neanche dove lavorino i miei colleghi.” Inoltre Milano, secondo lui, aveva perso l’occasione di essere costruita dagli architetti. Aveva esempi del secondo dopo guerra, ma non era mai riuscita a valorizzarlo.
“Vico diceva che la formazione più importante per lui è stata il liceo classico. Disquisivamo sul latino e sul greco. Si andava a Londra tutti insieme, anche con i miei genitori. Ci faceva scarpinare come pazzi per musei col suo, come lo chiamava, “passo del museologo”: bisognava andare avanti spediti, sosteneva, e tornare indietro solo per le cose che proprio ci interessavano.”
Per Vico era fondamentale avere sempre sott'occhio e a portata di mano le cose importanti. Ecco perché vediamo ovunque pennelli di sughero gremiti di immagini fonte di ispirazione, schizzi, appunti... e non poteva mancare la sua nipotina. Si è proprio la Margherita qui davanti a noi.
Suo nonno era un uomo simpatico, mansueto, molto spiritoso, racconta Margherita, “distratto come poche persone al mondo, ma un distratto selettivo: se non gli interessava quello che stavi dicendo non ti ascoltava.”
Noi invece saremmo rimaste ad ascoltare lei per ore, ma non vogliamo rubare troppo tempo al suo lavoro e non vogliamo svelarvi troppo, perché la mostra vale davvero la pena di essere vissuta. Non ne rimarrete pentiti. Salutiamo e ringraziamo Margherita, Vico e il suo studio, e ci immergiamo nella luce abbagliante di questa mattina invernale.
Per prenotare una visita o avere più informazioni potete visitare il sito della Fondazione Vico Magistretti, per vedere tutto l'archivio ai giorni d'oggi digitalizzato visitate il sito dedicato.
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Foto: Bianca Rizzi, l'architetta
Testo: Lorenza Gentile, la scrittrice
Metti una giornata di sole invernale di quelle con la luce che riverbera abbagliante scaldando l'aria quel che basta per farti sentire bene solo per il fatto di stare al mondo. Metti Vico Magistretti, uno dei più importanti designer italiani, dal tocco colorato e assolutamente originale. Metti quello che è stato il suo studio per sessant'anni di carriera, che oggi ospita la Fondazione Magistretti, nel centro storico di una città in costante movimento come Milano, per l'esattezza davanti a una piazzetta deliziosa, quella del Conservatorio e della Basilica di Santa Maria della Passione. Mettici la mostra Magistretti Revisited. Mettici noi, una fotografa e una scrittrice, come sempre in cerca di storie, e Margherita Pellino, nipote di Vico, nonché responsabile dell’archivio storico della Fondazione (676 progetti design e architettura, disponibili anche online)... Ecco a voi il risultato!
Entriamo raggianti, incuriosite e un po' intimidite nel palazzo che ha ospitato la nascita dell'Italian Design. Non è certo una location qualunque: il palazzo, con tanto di rigoglioso giardino interno, è bellissimo, l’affaccio è spettacolare e se non amassimo questa città alla follia diremmo: “Non sembra neanche di essere a Milano.” È la Milano più bella, sicuramente, e lo sapeva benissimo anche Vico che, alla finestra del suo studio aveva fissato uno specchietto per poter ammirare la basilica, la piazzetta, e il suo bassotto... che si stendeva a prendere il sole in mezzo alla strada, in una città quasi senza macchine!
Prima di essere il suo studio, era lo studio di suo padre, Pier Giulio Magistretti, importante architetto che ha realizzato anche questo edificio, oltre nientedimeno che la Galleria del Corso, il Palazzo Bolchini e il Palazzo dell'Arengario. Vico, scopriremo, ha vissuto per un po’ in questo stesso palazzo, dopo il matrimonio con sua moglie Paola. Dopo il divorzio si è trasferito nel palazzo accanto, realizzato da lui!, e poi stabilmente in via del Gesù.
Lo studio ha una porta semplice e minimalista, proprio come ci si aspetta. Entriamo e ad accoglierci c'è Margherita.
Margherita è una donna alla mano, dalla battuta facile, che ama sdrammatizzare, ma che lascia anche trasparire una forte determinazione e una serietà quasi tagliente quando si parla del lavoro di Magistretti, che nonostante sia suo nonno, lei chiama sempre e solo Vico. Il suo ruolo alla Fondazione è quello di occuparsi dell’archivio, ragione per cui è a conoscenza di vita, morte e miracoli del grande designer milanese. Oltre che una visita guidata alla mostra, ci offre una bella chiacchierata, di cui le siamo davvero grate.
“Tutto era previsto per il 2020, anno del suo centenario” ci spiega Margherita. “L’idea era quella di celebrarlo con due mostre importanti. Una, alla Triennale di Milano: una retrospettiva in cui, per la prima volta, si espone anche il suo lavoro di architetto e non solo di designer. L’altra, molto più intima, qui alla Fondazione, per raccontarlo nel suo spazio. Due mostre diverse e complementari.”
Ci aggiriamo curiosissime. È un posto creativo, simpatico e serio allo stesso tempo. Ci sono taccuini, agende, un telefono antico, foto e cartoline, ritagli di giornale, pennarelli, timbri, matite, giocattoli di legno, progetti, oggetti... ogni cosa ci suggerisce una storia.
“Nel 2010, quando nasce la Fondazione, si decide di modificare la grande stanza d'ingresso, affinché diventi una scatola bianca che possa ospitare le mostre e venire incontro alle nuove esigenze dello spazio come fondazione. Abbiamo invece preservato praticamente com'era lo studio di Vico Magistretti e la sala riunioni” L’idea alla base di questa mostra è di cercare di rievocare lo studio così com'era. "Siamo una famiglia di accumulatori seriali, quindi abbiamo tenuto praticamente tutti gli arredi originali." Chi non avrebbe fatto lo stesso? Fossimo state al loro posto non avremmo buttato neanche l'involucro di una gomma da masticare. Non si sa mai che dentro ci fosse qualche appunto!
Lo spazio è stato allestito con un gioco di presenza e assenza. I segni rossi sul pavimento indicano come erano disposti gli arredi di un tempo. “Non è una scena del crimine di CSI", precisa Margherita ridendo. Gli arredi originali diventano contenitori, ospitano disegni, fotografie, articoli di giornale e oggetti, come gli occhiali di Vico sul tecnigrafo del geometra Montella, pilastro portante dello studio, come scopriremo in seguito. Le fotografie dell'archivio mostrano come sono cambiati nel tempo sia Vico che lo spazio nel tempo.
La mostra è incentrata su due aspetti diversi e complementari: lo spazio e la sua trasformazione, grazie appunto agli oggetti fisici e alle fotografie, e le parole. I pannelli (rigorosamente rossi) offrono citazioni tratte da interviste, articoli, diari e lettere e sono scritti con la sua stessa grafia che le designer Valentina Cerra e Chiara Corbani hanno trasformato in un font vero e proprio. Si chiama font Magistretti, ça va sans dire.
“Vico, giovane studente di architettura, torna in Italia alla fine della seconda guerra mondiale, dopo una parentesi svizzera” ci racconta Margherita, “Milano è una città distrutta, ma piena di iniziative, frizzante. “Tutti correvano” dice lui, che si trova con una madre vedova, un fratello, una sorella e una moglie. Ha bisogno di lavorare. Una volta laureato in architettura, eredita lo studio del padre.” Siamo nel 1946, Vico ha ventisei anni, si è appena sposato con Paola. Milano è una città dove gli architetti laureati sono pochi e si riuniscono. Lo scambio sul piano creativo e professionale è per lui fondamentale e fonte di grande entusiasmo. Insisterà su questo punto per tutta la sua carriera. Vico e la moglie fotografano la città distrutta, ma piena di energia e possibilità, regalandoci un racconto unico di Milano e di un periodo storico lontano al quale però dobbiamo tanto.
“L’Italian design è nato da noi architetti” dice Vico, “che avevamo bisogno degli oggetti per arredare le case che stavamo sistemando”. Non è un caso che il design nasca a Milano. In questo clima di forte propulsione innovativa, creatività e collaborazione i clienti commissionano progetti agli architetti a più non posso e questi iniziano a rivolgersi agli artigiani perché realizzino oggetti da loro disegnati per le case che gli sono state commissionate. Ma la produzione ad hoc è solo l’inizio del capitolo, che prosegue con l’entrata in scena delle aziende e l’avviamento della produzione di oggetti di design in serie, che accende il vero interesse di Vico.
Da un lato la vecchia cassettiera per l'archivio riposizionata dov'era stata una volta, dall'altro una nuova con sopra l'ipad dove si può consultare il sito dell'archivio.
Quando è nata la Fondazione Magistretti, il primo grande tema è stato fare ordine nell’archivio di uomo che ha lavorato sessant’anni solo con carta e penna. E per carta intendiamo tutti i tipi di carta. La mente di Vico era sempre all'opera. Se gli veniva un'idea ma non aveva il taccuino, la buttava giù su qualsiasi cosa trovasse a portata di mano, anche fosse la carta d'involucro di un sapone.
"Il pilastro portante dello studio era, come abbiamo detto, il geometra Montella, che ha lavorato a fianco di Vico dai primi anni del 1950 al 2003. Arrivava in ufficio con Unità sotto braccio e un pacchetto di sigarette MS. Lo studio Magistretti erano loro due. “Faccio l’architetto non il manager,” ha commentato Vico, quando gli hanno chiesto perché non si allargava. Lui e il geometra Montella erano uomini analogici. Come massima espressione tecnologica usavano il fax. Solo nel 2003, quando il geometra ha avuto un problema di salute, è subentrato un giovane architetto che ha portato un computer.”
Cerchiamo di immaginare come dev’essere stato e guardandoci intorno non è poi così difficile. Non siamo così stupite che grandi invenzioni creative siano nate in un’epoca così lontana dalla nostra, in cui si aveva più tempo e più capacità di concentrazione.
“Il mio lavoro consiste nel dare dei concetti, diceva mio nonno. Arrivava alle riunioni senza uno straccio di disegno. Mai visto un disegno tecnico dello Studio Magistretti. Faceva un disegno di massima per mostrare di cosa stava parlando, poi seguiva tutto il processo, in team con l’azienda. “Il design si fa chiacchierando” diceva sempre. Aveva lo stesso atteggiamento con l’architettura. Sull’esecutivo di cose specifiche, tipo l’impianto idraulico, si affidava ad altri. Lui parlava per concetti.”
“La semplicità è la cosa più complicata del mondo”, era uno dei motti di Vico. Quanto è vero!
Il salotto spettacolare di casa di Vico in via del Gesù. Quanto vorremmo poter riavvolgere la pellicola e fargli una visitina!
Vico amava il suo lavoro, ha sempre lavorato, fino alla fine, ma passava molto tempo anche con la famiglia, il weekend giocava a golf. Non rinunciava mai al suo riposino dopo pranzo.
“Un giorno della settimana io e mio fratello ci scapicollavamo dopo scuola per arrivare da lui a un orario decente e pranzare insieme, perché alle 14.30 andava a fare il riposino. Vico non sapeva cucinare e non capiva niente di cucina. Era capacissimo di offrirci del risotto liofilizzato. Cucinare con l’aglio era vietato a casa sua, per via dell’odore, per dire. A pranzo ci parlava del suo lavoro (non penso fosse pienamente consapevole della sua grandezza), parlava di calcio senza capirci niente, rompeva sull’importanza dell’inglese. Londra per lui era tutto quello che Milano non era più. Si ricordava di una Milano pazzesca, fatta di condivisioni, di incontri, contro una Milano degli anni ’90 che secondo lui era la culla della volgarità. “Cosa avrò mai da dire con le persone che passano il tempo a guardare la tv oggi in Italia,” diceva. La trovava una città diventata solitaria, in cui si era smesso di incontrarsi. “Un tempo ci incontravamo per parlare dei progetti, adesso non so più neanche dove lavorino i miei colleghi.” Inoltre Milano, secondo lui, aveva perso l’occasione di essere costruita dagli architetti. Aveva esempi del secondo dopo guerra, ma non era mai riuscita a valorizzarlo.
“Vico diceva che la formazione più importante per lui è stata il liceo classico. Disquisivamo sul latino e sul greco. Si andava a Londra tutti insieme, anche con i miei genitori. Ci faceva scarpinare come pazzi per musei col suo, come lo chiamava, “passo del museologo”: bisognava andare avanti spediti, sosteneva, e tornare indietro solo per le cose che proprio ci interessavano.”
Per Vico era fondamentale avere sempre sott'occhio e a portata di mano le cose importanti. Ecco perché vediamo ovunque pennelli di sughero gremiti di immagini fonte di ispirazione, schizzi, appunti... e non poteva mancare la sua nipotina. Si è proprio la Margherita qui davanti a noi.
Suo nonno era un uomo simpatico, mansueto, molto spiritoso, racconta Margherita, “distratto come poche persone al mondo, ma un distratto selettivo: se non gli interessava quello che stavi dicendo non ti ascoltava.”
Noi invece saremmo rimaste ad ascoltare lei per ore, ma non vogliamo rubare troppo tempo al suo lavoro e non vogliamo svelarvi troppo, perché la mostra vale davvero la pena di essere vissuta. Non ne rimarrete pentiti. Salutiamo e ringraziamo Margherita, Vico e il suo studio, e ci immergiamo nella luce abbagliante di questa mattina invernale.
Per prenotare una visita o avere più informazioni potete visitare il sito della Fondazione Vico Magistretti, per vedere tutto l'archivio ai giorni d'oggi digitalizzato visitate il sito dedicato.
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