Testo: Lorenza Gentile, la scrittrice
Foto: Bianca Rizzi, l’architetta
Clemente è una di quelle persone con un sorriso aperto e la battuta sempre pronta, a cui basta qualche minuto per farti credere di conoscerlo da una vita. Come si direbbe in inglese, una “people person”, una persona fatta per le persone.
Padre di Biella, madre metà siciliana, metà svizzera, nato a Forte dei Marmi per caso, ma cresciuto a Milano fino ai quattordici anni, ha poi studiato a Roma, in Inghilterra e infine è tornato a Milano.
L’impressione è che sia sempre impegnato, tra il lavoro in televisione, le sue passioni (sci, vela) e la vita sociale. È l’amico che aggrega, organizza i viaggi di gruppo, il “manutentore” (è un suo termine) che arriva a casa tua con il trapano per aiutarti a montare un mobile o appendere una mensola. È colui che ha reso la propria casa di Milano in zona Watt un’isola ospitale per tutti gli amici che arrivano da fuori. E sono tanti. Ecco forse perché il suo loft arancione è diventato mitico quasi come la sua simpatia. E noi abbiamo avuto la fortuna di visitarlo.
La trasformazione del quartiere
Decidiamo di andare a trovare Clemente in un’afosa giornata di fine estate. Non contente, ci accordiamo per le 14.30. Arriviamo con il sole allo zenit, sciolte come il gelato che abbiamo portato in regalo.
La casa è in fondo a una via che è un’infilata di capannoni riqualificati, proprio dove non ti aspetti di trovare più niente. Invece, basta varcare un alto cancello per ritrovarsi in un’oasi ex-industriale che sembra un paese, popolata di costruzioni diverse una dall’altra. Mattoni a vista, terrazze sui tetti con alberi fioriti, salici piangenti, siepi, una fontana, tante vetrate. Una composizione quasi innaturale ma piacevole, che ospita case, show-room, studi, uffici e perfino un ristorante.
Arriviamo spaccando quasi il secondo come lui, che ci viene incontro ben vestito, con in mano una ventiquattrore. Arriva dall’ufficio.
Il cancelletto di ferro che porta a casa sua, e che scopriremo avere una storia interessante, si apre su un giardino delimitato da una folta siepe con al centro un nespolo, che fa ombra e regge l’amaca che tutti vorremmo. Se solo avessi un giardino!, penso, invece che il mio balcone di un metro quadrato sul quale non cresce neanche il basilico.
La casa di Clemente sembra un cottage inglese perso nella campagna del Kent, piuttosto che un loft immerso in un’atmosfera post industriale. “La comprò mio padre nel 2004, era parte di una fabbrica rimasta per anni abbandonata. Ero sorpreso: avevo sempre vissuto in centro e all’epoca qui mi sembrava ancora fuori Milano. Non c’era molto, intorno. Ma la zona si è gradualmente ripopolata e devo ammettere che ci aveva visto giusto: adesso ci si vive benissimo. È pieno di posti carini, alcuni piuttosto hipster. Ci sono gli uffici di Yoox, Wired Italia, molti show-room di moda. E poi non è così lontana dal resto” dice dopo averci aperto la splendida vetrata e accolto in casa.
Ci troviamo in un salotto luminoso con un altissimo soffitto che dà slancio alla casa. Nonostante lo spazio sia enorme e tutto arancione, non ci sentiamo spiazzate. Clemente si è svuotato le tasche sul tavolo dell’ingresso, ha acceso l’aria condizionata, si è tolto le scarpe e ci ha fatto strada verso la cucina per offrirci un caffè. L’impressione è che abbia fatto tutto simultaneamente, mentre noi siamo a malapena riuscite a guardarci intorno.
Sono passati cinque secondi, la macchina del caffè borbotta e noi ci sentiamo già a nostro agio.
Un mondo arancione: il salotto
Sederci in salotto a chiacchierare ci viene naturale.
“Mio padre era contrario all’idea del loft minimalista, bianco, moderno” racconta Clemente. “Perché, diceva, negli spazi industriali è sempre tutto così neutro? Io la voglio riempire, casa mia”. Aveva tanti oggetti, quadri, mobili antichi ereditati e ha voluto fare una cosa diversa: metterci cose dentro con una storia, creare un ambiente pieno, carico, caldo. “Ha dipinto le pareti del salotto di arancione, mentre le camere da letto sono gialle, per evitare che tu abbia degli ictus durante la notte”. Ridiamo. “I bagni sono dipinti di rosso. Una scelta un po’ folle, che però io ho approvato subito”.
E anche noi. Nonostante quello che uno potrebbe immaginarsi nel sentire questa conversazione senza vedere la casa, il risultato non è eccessivo. La modernità intrinseca del loft e l’arredamento antico si controbilanciano senza togliersi forza l’un l’altro.
“Mi piace molto l’art déco e questa lampada è uno dei miei oggetti preferiti. Un serpente intorno a un uovo. O un fungo?”.
Per anni Clemente ha condiviso la casa con il padre, quando non era via per gli studi. Dal 2012, dopo la sua scomparsa, vive qui stabilmente, da solo. Ha lasciato invariato il colore delle pareti, ha tenuto i quadri a tema marittimo, quelli orientali e molti altri oggetti del padre, ma ha introdotto anche qualche cambiamento. Il salotto era diverso, ci spiega, c’era “un vecchio divano bruttissimo” che lui ha sostituito con due Ektorp Ikea (“comunque più belli di quello di prima”), e nessun tavolo basso. “Le poltroncine sono originali della casa in cui sono cresciuto come potete constatare dal loro terribile stato, per coincidenza stavano abbastanza bene col resto”.
Entrambe gli chiediamo del divano rosso sotto la finestra. A Bianca fa pensare a una barca che fluttua. “Qui non si nota perché siamo in uno spazio molto grande, ma è un divano totalmente fuori misura. Io che sono alto un metro e novanta posso stendermici interamente. Un amico di mia madre voleva disfarsene, ma non sapeva a chi darlo date le dimensioni, così l’ho preso io. Neanche a farlo apposta, ci stava benissimo. E così ho sostituito uno dei due Ektorp”.
Il fatto che la sua altezza coincida perfettamente con la greca sul muro è pura casualità, perché il divano è arrivato dopo. “Questa casa è un po’ interrata, quindi ha dei problemi di umidità. Un giorno mia madre, che passava di qua, ha notato delle macchie di umido nella parte bassa delle pareti. Essendo, come me, patita di bricolage, si è messa a grattare via tutto. Poi mi ha chiesto la vernice arancione per ripitturare, ma non ne avevo più. Era avanzata solo quella gialla delle stanze, così ha usato quella e completato l’opera con questa striscia che sembra disegnata a mano, studiata da chissà quale designer, e invece è un nastro adesivo da cinque euro al metro comprato al Brico di via Washington”.
Sarà tutta casualità, ma fa la sua figura. Sembra quasi di essere a Pompei.
Clemente ci tiene a sottolineare che anche i cuscini, con sopra cucite le mantovane delle tende della sua vecchia casa, sono opera della madre bricoleuse.
Dal Brasile al Giappone
“San Paolo!” dice Bianca indicando la bella fotografia incorniciata dietro di noi. “È un regalo del mio amico Delfino Legnani Sisto, fotografo di moda e di architettura” spiega Clemente, con evidente orgoglio. “Il palazzo tondo è oggi il tribunale di giustizia, ma è nato come il primo albergo di lusso della capitale” spiega Bianca, illuminandosi nel vedere un’immagine di casa. “Dietro c’è il Copan, un palazzo iconico progettato da Niemeyer negli anni ‘60. È passato attraverso grandi trasformazioni, proprio come il contesto in cui è inserito, nel centro della città. Si vede anche l’edificio Italia, per tanti anni il più alto in assoluto. Tutti e tre sono patrimonio storico di San Paolo. La strada in primo piano è il Minhocão, la lumacona. Una sopraelevata che probabilmente a breve non esisterà più come la vediamo qui: da anni sono in corso mille progetti di riqualificazione e proteste per la sua demolizione. Ma per ora è ancora lì e la domenica che è chiuso al traffico diventa pieno di gente e vita”.
Clementei a questa foto è molto legato, Delfino è un suo caro amico, anche se, tra parentesi, l’ha insultato per la scelta della cornice. “Sostiene che debba essere più sottile e che non serva il passe-partout. Ho provato, ma il risultato è stato pessimo. Per me lo sminuiva. Sono tornato al negozio e ho optato per questa soluzione. Molto più d’effetto, no? Ma non sono riuscito a convincerlo”.
“I quadri in bianco e nero sono opera di Alicia Penalba, una pittrice amica di mia nonna. A mia nonna piaceva circondarsi di artisti. Passava i mesi estivi a Forte dei Marmi e lì ne frequentava molti. Alcuni di questi, tra cui la Penalba, le regalavano opere in cambio di ospitalità perché non avevano mai una lira. Questo, però" dice indicandone uno, “è stato il suo regalo di matrimonio ai miei genitori. Sono cresciuto vedendolo appeso in orizzontale e non mi piaceva per niente. Un giorno l’ho girato. È cambiato completamente. Sarà un sacrilegio, ma in verticale mi piace molto di più. Così l’ho appeso qui”.
“Mi piace che basti un cambio di prospettiva”, riflette Bianca, “per ricevere un’impressione completamente nuova da qualcosa con cui abbiamo convissuto tutta la vita”.
“Queste opere si giocano tutte su questo, a parer mio” dice Clemente. “Ognuno ci vede una cosa diversa. Dopo che una mia amica mi ha detto di aver individuato in questo un ladro che fugge non riesco a scorgerci altro”. I cinque minuti successivi li passiamo a capire come in quel quadro ci si possa riconoscere un ladro. Io non ci arrivo, ma Bianca sì, non riuscendo più, poi, a vederci il cavallo dell’inizio.
“Dopo aver fatto pace con questo primo quadro, ho recuperato gli altri nell’ufficio di mio padre. Così, invece che avere la casa minimal con quadri coloratissimi, ho la casa colorata con i quadri minimal”.
A me fanno pensare al Giappone. E in questo senso legano molto bene con Mauro, il bonsai, che riposa sul davanzale dell’enorme finestra che dà sul giardino intimo, silenzioso. Gli chiediamo se lo vive e come. “Molto meno di quello che vorrei, per via del clima. Ma è bello anche quando non ci stai. Quando apri la finestra è un po’ come essere fuori, diventa un ambiente unico. E poi si vede il cielo. Vederlo dal piano terra a Milano è cosa rara”.
Il nespolo ricorda l’albero nel quadro di Cranach a tema giardino dell’Eden. Lo dico. “L’albero era piccolissimo, alto nemmeno la metà” racconta Clemente. “È stato così per anni, senza crescere per niente. Poi a un certo punto una sua radice deve aver cominciato a pescare da una fogna, perché in tre anni è esploso, diventando come lo vediamo adesso”.
“Dici che è merito della fogna?” chiede Bianca che, spiega, è riuscita a far crescere un nespolo come suo unico traguardo da giardiniera. “Pensavo per il tipo di albero, visto che sicuramente non era il mio pollice verde”.
Mostro la foto del dipinto di Cranach trovato su Google, ma nessuno dei due sembra colpito.
“Mauro ha novantacinque anni. È un bonsai che ha vinto mia madre a una lotteria di beneficenza della Guardia di Finanza. Era il primo premio. È stato anni da mia madre, poi a un certo punto me lo ha affidato. Sostiene che io ci debba parlare per instaurarci un rapporto, ma per quanto mi sforzi, non so proprio cosa dirgli. Un esperto di bonsai ti direbbe che è tenuto male, perché le foglie sono più grandi di quanto dovrebbero e non so cos’altro. Dovrei stare lì a mettere in atto tante di quelle piccole procedure… Ma faccio prima: tre volte all’anno lo spedisco in clinica, da un botanico specializzato che gli dà tutte le cure che qui gli mancano. Me lo riporta perfetto, pronto ai mesi di grama con me. Povero Mauro. Ci sono molto affezionato”.
"Il pallone della finale della Champions League di Milano del 2016 l’’ho appoggiato lì sopra sei anni fa perché c’era un cane che girava per casa e lì è rimasto”.
Gli oggetti a contrasto
Non sembra esserci un ragionamento a priori sulla posizione assegnata agli oggetti in questa casa, né un particolare legame affettivo verso molti di essi. Sembra piuttosto che abbiano trovato il loro posto in modo casuale e lì siano rimasti, assumendo significato con il tempo. Dalla palla da calcio ferma nello stesso punto dal 2016 ai trofei di golf di suo nonno che non gli piacciono neanche tanto, passando per le cartoline della Grecia in realtà comprate in Brera da un venditore ambulante, al fenicottero gonfiabile tornato con lui da un viaggio in barca, che non si è più mosso dalla ringhiera.
Tutto sembra il riflesso della mentalità aperta tipica di chi ha viaggiato il mondo, una buona dose d’ironia e al tempo stesso una certa fedeltà alla tradizione.
Quando gli chiediamo di raccontarci un po’ cosa c’è nelle librerie, Clemente ritrova oggetti che non sapeva nemmeno di avere. Molti non paiono significare molto per lui, mentre vedendone altri s’illumina. Ma le cose a cui è affezionato sembrano avere lo stesso ordine di importanza delle altre, a livello di posizione nello spazio. È il suo modo di dare valore alla casa.
“Ogni cosa sta bene dov’è, che abbia un senso o meno” ci dice. “Sarebbe assurdo disfarsene, come chiedersi perché è lì. Anche se niente ha senso singolarmente, l’insieme mi piace. Mi dà un’impressione di ricchezza perché è un po’ il percorso dei miei ultimi sedici anni di vita”.
È davvero una casa di contrasti ben orchestrati, che coesistono in modo naturale. È come se ci fossero tre anime. I mobili e gli oggetti antichi eredità di famiglia, gli arredi art déco scelti da Clemente e qualche gadget pop, come la palla da discoteca e il fenicottero che vengono dal mondo degli amici.
Oltre alla sua collezione di gialli e ai piccoli raffinati volumi di marmo fatti a Pietrasanta, segnaliamo il libro: “The game. La bibbia dell’artista del rimorchio” :D
“Il bar è un vecchio lavandino da camera. Sotto i vassoi ci sono dei buchi, dove venivano inseriti dei secchi pieni d’acqua calda e fredda con cui lavarsi. Nella mia casa dove sono cresciuto era già un bar, ma aveva anche un’altra funzionalità: in uno dei due buchi ci incastravamo l’albero di Natale. Ormai non lo faccio più così grande, ho un alberello alto cinquanta centimetri nell’armadio, già addobbato. Lo tiro fuori dalla plastica e lo appoggio sul tavolo: finito. So che il pannello appeso sopra, con la nave in rilievo, sembra studiato perché è esattamente della stessa misura, invece è del tutto casuale come tante altre cose qui dentro”.
Il piano terra
La zona giorno con i soffitti alti cinque metri è completata da due zone notte più raccolte, una al piano terra e una al primo piano, dove l’altezza dei soffitti si dimezza e cambia il colore alle pareti. Due nuclei separati, composti ognuno da una camera da letto e un bagno (rigorosamente rosso). Al piano di sotto c’è anche una piccola lavanderia, mentre sopra un’invidiabilissima cabina armadio. Senza dimenticare la piccola cucina in comune al piano terra, proprio sotto lo studio.
Clemente si muove con nonchalance, parlandoci mentre gioca con una pallina da tennis che sostiene di non prendere mai in mano. Forse lo rendiamo nervoso? Giura di no. Aprire casa sua gli fa piacere. “Mi piace ospitare gli amici, alcuni non mi avvertono neanche più. Si presentano in portineria e ritirano le chiavi. Poi mi telefonano. ‘Ti spiace se stiamo qualche giorno?’. A me non dispiace mai”. Dormono in quella che era la sua stanza, al piano di sotto, che ora, quando non ci sono ospiti, è la sua stanza “laboratorio”, dove tiene l’armamentario per il bricolage e gli attrezzi sportivi. “Lì sul letto sto preparando la mia valigia per la barca. Come vedete non porto vestiti, ma radio, gambaletti, la pompa di sentina, bandiere”.
“Lo sgabello é un unico pezzo di legno. Molto bello, ma estremamente scomodo. Ne ho comprati due, in Africa, e li ho trasportati in valigia con le mutande e i vestiti infilati dentro. Classiche robe che vedi lì e pensi: fantastico mi ci siederò in salotto quotidianamente. Ma tornato a casa ho capito subito che non li avrei mai usati, sono di una scomodità unica. Ecco il motivo per cui li trovate nei bagni”.
Il piano di sopra
La struttura del primo piano, quasi interamente a vista, è di ferro come gli infissi delle grandi finestre.
Nonostante il tipo di legno in sé non sia pregiato, ci rendiamo conto salendo che le scale comunicano una certa imponenza, forse per via dell’altezza del soffitto o dei quadri orientali disposti a croce. Quadri che, tra parentesi, Clemente vorrebbe sostituire con qualcosa che metta in evidenza le caratteristiche dello spazio, come un drappo.
Arrivati in cima, la casa acquista tutta una nuova prospettiva. Oltre allo studio e la zona notte alle nostre spalle, le librerie che corrono lungo il muro sono popolate di oggetti bizzarri come un portapipe antico, modellini di imbarcazioni, dipinti illuminati con luci d’effetto e, last but not least, l’amico fenicottero.
Lo studio è un ambiente interessante, raccolto ma sospeso su uno spazio immenso. Sembra quasi di volare.
“Questa zona è stata disabitata per dieci anni” racconta Clemente. “Mio padre ci aveva messo il salottino della televisione. Odiava averla in salotto, sapete quelle robe da vecchi snob, e quindi giù c’era il salotto per le occasioni e questo era il salottino per la televisione. Io l’ho trasformato in studio, ma non l’ho mai usato davvero”. Dall’inizio del lockdown, invece, l’ha rimesso in ordine e ha iniziato a lavorarci ogni giorno.
“Ma questo pavimento?” chiede l’architetto, estasiata. Camminarci sopra le dà una sensazione bellissima e le ricorda la trama del tatami. Sì, ci siamo levate le scarpe anche noi, e stiamo girando per la casa a piedi nudi come se fosse la cosa più naturale del mondo. “Essendo il soffitto molto basso” spiega Clemente, toccandolo con il palmo della mano aperta per una dimostrazione pratica “abbiamo scelto il rivestimento più piatto in assoluto, incollato direttamente al cemento”.
La stanza da letto è rimasta identica a quando ci dormiva suo padre. Una finestrella si apre sullo studio per far entrare un po’ più di luce. “Quella sciabola è lì per difenderti in caso che entrino i ladri?” Clemente ride. È una spada da militare di qualche suo antenato. È sempre stata in casa sua, ma i suoi genitori la tenevano nascosta per paura che da bambino la usasse per fare male a qualcuno.
Impossibile concludere il tour senza menzionare l’enorme cabina armadio, con tanto di portacravatte elettrico, sogno di tutti noi, e della stanza per le scarpe. Scarpe che non usa, perché ne indossa solo due (a stagione).
In giardino
Al termine del giro torniamo in giardino per scoprire la storia del cancello. “Avevo bisogno di chiudere il passaggio, ma non volevo una cosa standard. Alla fine ho messo al lavoro i miei amici designer e lo abbiamo progettato insieme. Sulle fessure ci siamo confrontati a lungo e siamo arrivati a riprodurlo in cartone a grandezza naturale: dovevano dare un senso di apertura, ma non lasciare che si vedesse dentro. Insomma, una fatica! Ma secondo me è venuto bene”.
Sono passate oltre due ore e mezzo da quando siamo arrivate. Ci chiediamo se mostrarci il cancello non sia un messaggio subliminale e senza bisogno di cercare una conferma lo avvertiamo che per noi è giunta l’ora di andare. Clemente ci accompagna fino al grande cancello condominiale camminando a piedi nudi sull’asfalto rovente. Chissà se ha qualche colpa da espiare o è solo abituato così. È stato talmente bello, ci diciamo dopo averlo salutato, che ci siamo perfino dimenticati di mangiare il gelato. "Calorie in meno” commenta Bianca. “E storie in più” rispondo io, mentre ci infiliamo nella macchina arroventata, allegre e soddisfatte come se l’avessimo assaggiato.
Se sei alto ma hai il soffitto basso, il rivestimento simil tatami da incollare direttamente sul cemento ci sembra un’ottima idea. Non è solo bello, resistente e lavabile, ma dona anche una piacevole sensazione ai piedi. Levarsi le scarpe è d’obbligo.
Le greche adesive fanno una gran scena! Da tenerlo presente per le pareti bicolor. E non solo.
Vuoi conferire una nuova identità a un semplice armadio Ikea? Basta dipingerlo in due colori per ottenere un effetto da mobile antico di famiglia, in stile provenzale. Se poi monti le maniglie al contrario come ha fatto Clemente, ci appendi anche le camicie ;)
Vedo, non vedo. Soprattutto: non vedo!
Le finestre che danno sul passaggio esterno sono state opacizzate durante la ristrutturazione con della semplice vernice bianca che col tempo sta sbiadendo. Volendo trovare una soluzione semplice, poco costosa e più omogenea, esistono delle pellicole con effetto vetro satinato da incollare direttamente sui vetri. Se vuoi un “effetto cattedrale” ci sono anche quelle colorate :)
Umidità facile da riscontrare, non sempre semplice da risolvere...
La cosa più importante per risolvere a fondo il problema dell’umidità è individuare con quale tipo di umidità abbiamo a che fare. Forse non tutti sanno che ne esistono diverse, almeno dodici. Dipendono da tanti fattori, come la composizione della muratura, del terreno, il tipo di costruzione, etc. La casa di Clemente soffre probabilmente di un problema di umidità di risalita, essendo semi interrata. Sua madre ha mascherato molto bene il problema in salotto grattando via l'intonaco danneggiato e dando una mano di vernice colorata, ma non essendo questa una soluzione risolutiva il problema ha cominciato a riemergere.
Esistono varie soluzioni più durature. Dal sanificare il vespaio e impermeabilizzare la fondamenta, che sarebbe risolutivo ma comporterebbe una grossa spesa e mesi di lavoro, al semplice inserimento di un sistema di VMC, ventilazione meccanica controllata. Si potrebbe anche rimuovere intonaco e malta dai muri, farli asciugare e rifare l’intonaco scegliendone uno macroporoso deumidificante, su cui passare una mano di pittura specifica ultra traspirante. Consigliamo di rivolgersi a un esperto del settore, che con un'analisi approfondita può identificare il tipo di umidità in questione e consigliarti la soluzione più adatta.
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Testo: Lorenza Gentile, la scrittrice
Foto: Bianca Rizzi, l’architetta
Clemente è una di quelle persone con un sorriso aperto e la battuta sempre pronta, a cui basta qualche minuto per farti credere di conoscerlo da una vita. Come si direbbe in inglese, una “people person”, una persona fatta per le persone.
Padre di Biella, madre metà siciliana, metà svizzera, nato a Forte dei Marmi per caso, ma cresciuto a Milano fino ai quattordici anni, ha poi studiato a Roma, in Inghilterra e infine è tornato a Milano.
L’impressione è che sia sempre impegnato, tra il lavoro in televisione, le sue passioni (sci, vela) e la vita sociale. È l’amico che aggrega, organizza i viaggi di gruppo, il “manutentore” (è un suo termine) che arriva a casa tua con il trapano per aiutarti a montare un mobile o appendere una mensola. È colui che ha reso la propria casa di Milano in zona Watt un’isola ospitale per tutti gli amici che arrivano da fuori. E sono tanti. Ecco forse perché il suo loft arancione è diventato mitico quasi come la sua simpatia. E noi abbiamo avuto la fortuna di visitarlo.
La trasformazione del quartiere
Decidiamo di andare a trovare Clemente in un’afosa giornata di fine estate. Non contente, ci accordiamo per le 14.30. Arriviamo con il sole allo zenit, sciolte come il gelato che abbiamo portato in regalo.
La casa è in fondo a una via che è un’infilata di capannoni riqualificati, proprio dove non ti aspetti di trovare più niente. Invece, basta varcare un alto cancello per ritrovarsi in un’oasi ex-industriale che sembra un paese, popolata di costruzioni diverse una dall’altra. Mattoni a vista, terrazze sui tetti con alberi fioriti, salici piangenti, siepi, una fontana, tante vetrate. Una composizione quasi innaturale ma piacevole, che ospita case, show-room, studi, uffici e perfino un ristorante.
Arriviamo spaccando quasi il secondo come lui, che ci viene incontro ben vestito, con in mano una ventiquattrore. Arriva dall’ufficio.
Il cancelletto di ferro che porta a casa sua, e che scopriremo avere una storia interessante, si apre su un giardino delimitato da una folta siepe con al centro un nespolo, che fa ombra e regge l’amaca che tutti vorremmo. Se solo avessi un giardino!, penso, invece che il mio balcone di un metro quadrato sul quale non cresce neanche il basilico.
La casa di Clemente sembra un cottage inglese perso nella campagna del Kent, piuttosto che un loft immerso in un’atmosfera post industriale. “La comprò mio padre nel 2004, era parte di una fabbrica rimasta per anni abbandonata. Ero sorpreso: avevo sempre vissuto in centro e all’epoca qui mi sembrava ancora fuori Milano. Non c’era molto, intorno. Ma la zona si è gradualmente ripopolata e devo ammettere che ci aveva visto giusto: adesso ci si vive benissimo. È pieno di posti carini, alcuni piuttosto hipster. Ci sono gli uffici di Yoox, Wired Italia, molti show-room di moda. E poi non è così lontana dal resto” dice dopo averci aperto la splendida vetrata e accolto in casa.
Ci troviamo in un salotto luminoso con un altissimo soffitto che dà slancio alla casa. Nonostante lo spazio sia enorme e tutto arancione, non ci sentiamo spiazzate. Clemente si è svuotato le tasche sul tavolo dell’ingresso, ha acceso l’aria condizionata, si è tolto le scarpe e ci ha fatto strada verso la cucina per offrirci un caffè. L’impressione è che abbia fatto tutto simultaneamente, mentre noi siamo a malapena riuscite a guardarci intorno.
Sono passati cinque secondi, la macchina del caffè borbotta e noi ci sentiamo già a nostro agio.
Un mondo arancione: il salotto
Sederci in salotto a chiacchierare ci viene naturale.
“Mio padre era contrario all’idea del loft minimalista, bianco, moderno” racconta Clemente. “Perché, diceva, negli spazi industriali è sempre tutto così neutro? Io la voglio riempire, casa mia”. Aveva tanti oggetti, quadri, mobili antichi ereditati e ha voluto fare una cosa diversa: metterci cose dentro con una storia, creare un ambiente pieno, carico, caldo. “Ha dipinto le pareti del salotto di arancione, mentre le camere da letto sono gialle, per evitare che tu abbia degli ictus durante la notte”. Ridiamo. “I bagni sono dipinti di rosso. Una scelta un po’ folle, che però io ho approvato subito”.
E anche noi. Nonostante quello che uno potrebbe immaginarsi nel sentire questa conversazione senza vedere la casa, il risultato non è eccessivo. La modernità intrinseca del loft e l’arredamento antico si controbilanciano senza togliersi forza l’un l’altro.
“Mi piace molto l’art déco e questa lampada è uno dei miei oggetti preferiti. Un serpente intorno a un uovo. O un fungo?”.
Per anni Clemente ha condiviso la casa con il padre, quando non era via per gli studi. Dal 2012, dopo la sua scomparsa, vive qui stabilmente, da solo. Ha lasciato invariato il colore delle pareti, ha tenuto i quadri a tema marittimo, quelli orientali e molti altri oggetti del padre, ma ha introdotto anche qualche cambiamento. Il salotto era diverso, ci spiega, c’era “un vecchio divano bruttissimo” che lui ha sostituito con due Ektorp Ikea (“comunque più belli di quello di prima”), e nessun tavolo basso. “Le poltroncine sono originali della casa in cui sono cresciuto come potete constatare dal loro terribile stato, per coincidenza stavano abbastanza bene col resto”.
Entrambe gli chiediamo del divano rosso sotto la finestra. A Bianca fa pensare a una barca che fluttua. “Qui non si nota perché siamo in uno spazio molto grande, ma è un divano totalmente fuori misura. Io che sono alto un metro e novanta posso stendermici interamente. Un amico di mia madre voleva disfarsene, ma non sapeva a chi darlo date le dimensioni, così l’ho preso io. Neanche a farlo apposta, ci stava benissimo. E così ho sostituito uno dei due Ektorp”.
Il fatto che la sua altezza coincida perfettamente con la greca sul muro è pura casualità, perché il divano è arrivato dopo. “Questa casa è un po’ interrata, quindi ha dei problemi di umidità. Un giorno mia madre, che passava di qua, ha notato delle macchie di umido nella parte bassa delle pareti. Essendo, come me, patita di bricolage, si è messa a grattare via tutto. Poi mi ha chiesto la vernice arancione per ripitturare, ma non ne avevo più. Era avanzata solo quella gialla delle stanze, così ha usato quella e completato l’opera con questa striscia che sembra disegnata a mano, studiata da chissà quale designer, e invece è un nastro adesivo da cinque euro al metro comprato al Brico di via Washington”.
Sarà tutta casualità, ma fa la sua figura. Sembra quasi di essere a Pompei.
Clemente ci tiene a sottolineare che anche i cuscini, con sopra cucite le mantovane delle tende della sua vecchia casa, sono opera della madre bricoleuse.
Dal Brasile al Giappone
“San Paolo!” dice Bianca indicando la bella fotografia incorniciata dietro di noi. “È un regalo del mio amico Delfino Legnani Sisto, fotografo di moda e di architettura” spiega Clemente, con evidente orgoglio. “Il palazzo tondo è oggi il tribunale di giustizia, ma è nato come il primo albergo di lusso della capitale” spiega Bianca, illuminandosi nel vedere un’immagine di casa. “Dietro c’è il Copan, un palazzo iconico progettato da Niemeyer negli anni ‘60. È passato attraverso grandi trasformazioni, proprio come il contesto in cui è inserito, nel centro della città. Si vede anche l’edificio Italia, per tanti anni il più alto in assoluto. Tutti e tre sono patrimonio storico di San Paolo. La strada in primo piano è il Minhocão, la lumacona. Una sopraelevata che probabilmente a breve non esisterà più come la vediamo qui: da anni sono in corso mille progetti di riqualificazione e proteste per la sua demolizione. Ma per ora è ancora lì e la domenica che è chiuso al traffico diventa pieno di gente e vita”.
Clementei a questa foto è molto legato, Delfino è un suo caro amico, anche se, tra parentesi, l’ha insultato per la scelta della cornice. “Sostiene che debba essere più sottile e che non serva il passe-partout. Ho provato, ma il risultato è stato pessimo. Per me lo sminuiva. Sono tornato al negozio e ho optato per questa soluzione. Molto più d’effetto, no? Ma non sono riuscito a convincerlo”.
“I quadri in bianco e nero sono opera di Alicia Penalba, una pittrice amica di mia nonna. A mia nonna piaceva circondarsi di artisti. Passava i mesi estivi a Forte dei Marmi e lì ne frequentava molti. Alcuni di questi, tra cui la Penalba, le regalavano opere in cambio di ospitalità perché non avevano mai una lira. Questo, però" dice indicandone uno, “è stato il suo regalo di matrimonio ai miei genitori. Sono cresciuto vedendolo appeso in orizzontale e non mi piaceva per niente. Un giorno l’ho girato. È cambiato completamente. Sarà un sacrilegio, ma in verticale mi piace molto di più. Così l’ho appeso qui”.
“Mi piace che basti un cambio di prospettiva”, riflette Bianca, “per ricevere un’impressione completamente nuova da qualcosa con cui abbiamo convissuto tutta la vita”.
“Queste opere si giocano tutte su questo, a parer mio” dice Clemente. “Ognuno ci vede una cosa diversa. Dopo che una mia amica mi ha detto di aver individuato in questo un ladro che fugge non riesco a scorgerci altro”. I cinque minuti successivi li passiamo a capire come in quel quadro ci si possa riconoscere un ladro. Io non ci arrivo, ma Bianca sì, non riuscendo più, poi, a vederci il cavallo dell’inizio.
“Dopo aver fatto pace con questo primo quadro, ho recuperato gli altri nell’ufficio di mio padre. Così, invece che avere la casa minimal con quadri coloratissimi, ho la casa colorata con i quadri minimal”.
A me fanno pensare al Giappone. E in questo senso legano molto bene con Mauro, il bonsai, che riposa sul davanzale dell’enorme finestra che dà sul giardino intimo, silenzioso. Gli chiediamo se lo vive e come. “Molto meno di quello che vorrei, per via del clima. Ma è bello anche quando non ci stai. Quando apri la finestra è un po’ come essere fuori, diventa un ambiente unico. E poi si vede il cielo. Vederlo dal piano terra a Milano è cosa rara”.
Il nespolo ricorda l’albero nel quadro di Cranach a tema giardino dell’Eden. Lo dico. “L’albero era piccolissimo, alto nemmeno la metà” racconta Clemente. “È stato così per anni, senza crescere per niente. Poi a un certo punto una sua radice deve aver cominciato a pescare da una fogna, perché in tre anni è esploso, diventando come lo vediamo adesso”.
“Dici che è merito della fogna?” chiede Bianca che, spiega, è riuscita a far crescere un nespolo come suo unico traguardo da giardiniera. “Pensavo per il tipo di albero, visto che sicuramente non era il mio pollice verde”.
Mostro la foto del dipinto di Cranach trovato su Google, ma nessuno dei due sembra colpito.
“Mauro ha novantacinque anni. È un bonsai che ha vinto mia madre a una lotteria di beneficenza della Guardia di Finanza. Era il primo premio. È stato anni da mia madre, poi a un certo punto me lo ha affidato. Sostiene che io ci debba parlare per instaurarci un rapporto, ma per quanto mi sforzi, non so proprio cosa dirgli. Un esperto di bonsai ti direbbe che è tenuto male, perché le foglie sono più grandi di quanto dovrebbero e non so cos’altro. Dovrei stare lì a mettere in atto tante di quelle piccole procedure… Ma faccio prima: tre volte all’anno lo spedisco in clinica, da un botanico specializzato che gli dà tutte le cure che qui gli mancano. Me lo riporta perfetto, pronto ai mesi di grama con me. Povero Mauro. Ci sono molto affezionato”.
"Il pallone della finale della Champions League di Milano del 2016 l’’ho appoggiato lì sopra sei anni fa perché c’era un cane che girava per casa e lì è rimasto”.
Gli oggetti a contrasto
Non sembra esserci un ragionamento a priori sulla posizione assegnata agli oggetti in questa casa, né un particolare legame affettivo verso molti di essi. Sembra piuttosto che abbiano trovato il loro posto in modo casuale e lì siano rimasti, assumendo significato con il tempo. Dalla palla da calcio ferma nello stesso punto dal 2016 ai trofei di golf di suo nonno che non gli piacciono neanche tanto, passando per le cartoline della Grecia in realtà comprate in Brera da un venditore ambulante, al fenicottero gonfiabile tornato con lui da un viaggio in barca, che non si è più mosso dalla ringhiera.
Tutto sembra il riflesso della mentalità aperta tipica di chi ha viaggiato il mondo, una buona dose d’ironia e al tempo stesso una certa fedeltà alla tradizione.
Quando gli chiediamo di raccontarci un po’ cosa c’è nelle librerie, Clemente ritrova oggetti che non sapeva nemmeno di avere. Molti non paiono significare molto per lui, mentre vedendone altri s’illumina. Ma le cose a cui è affezionato sembrano avere lo stesso ordine di importanza delle altre, a livello di posizione nello spazio. È il suo modo di dare valore alla casa.
“Ogni cosa sta bene dov’è, che abbia un senso o meno” ci dice. “Sarebbe assurdo disfarsene, come chiedersi perché è lì. Anche se niente ha senso singolarmente, l’insieme mi piace. Mi dà un’impressione di ricchezza perché è un po’ il percorso dei miei ultimi sedici anni di vita”.
È davvero una casa di contrasti ben orchestrati, che coesistono in modo naturale. È come se ci fossero tre anime. I mobili e gli oggetti antichi eredità di famiglia, gli arredi art déco scelti da Clemente e qualche gadget pop, come la palla da discoteca e il fenicottero che vengono dal mondo degli amici.
Oltre alla sua collezione di gialli e ai piccoli raffinati volumi di marmo fatti a Pietrasanta, segnaliamo il libro: “The game. La bibbia dell’artista del rimorchio” :D
“Il bar è un vecchio lavandino da camera. Sotto i vassoi ci sono dei buchi, dove venivano inseriti dei secchi pieni d’acqua calda e fredda con cui lavarsi. Nella mia casa dove sono cresciuto era già un bar, ma aveva anche un’altra funzionalità: in uno dei due buchi ci incastravamo l’albero di Natale. Ormai non lo faccio più così grande, ho un alberello alto cinquanta centimetri nell’armadio, già addobbato. Lo tiro fuori dalla plastica e lo appoggio sul tavolo: finito. So che il pannello appeso sopra, con la nave in rilievo, sembra studiato perché è esattamente della stessa misura, invece è del tutto casuale come tante altre cose qui dentro”.
Il piano terra
La zona giorno con i soffitti alti cinque metri è completata da due zone notte più raccolte, una al piano terra e una al primo piano, dove l’altezza dei soffitti si dimezza e cambia il colore alle pareti. Due nuclei separati, composti ognuno da una camera da letto e un bagno (rigorosamente rosso). Al piano di sotto c’è anche una piccola lavanderia, mentre sopra un’invidiabilissima cabina armadio. Senza dimenticare la piccola cucina in comune al piano terra, proprio sotto lo studio.
Clemente si muove con nonchalance, parlandoci mentre gioca con una pallina da tennis che sostiene di non prendere mai in mano. Forse lo rendiamo nervoso? Giura di no. Aprire casa sua gli fa piacere. “Mi piace ospitare gli amici, alcuni non mi avvertono neanche più. Si presentano in portineria e ritirano le chiavi. Poi mi telefonano. ‘Ti spiace se stiamo qualche giorno?’. A me non dispiace mai”. Dormono in quella che era la sua stanza, al piano di sotto, che ora, quando non ci sono ospiti, è la sua stanza “laboratorio”, dove tiene l’armamentario per il bricolage e gli attrezzi sportivi. “Lì sul letto sto preparando la mia valigia per la barca. Come vedete non porto vestiti, ma radio, gambaletti, la pompa di sentina, bandiere”.
“Lo sgabello é un unico pezzo di legno. Molto bello, ma estremamente scomodo. Ne ho comprati due, in Africa, e li ho trasportati in valigia con le mutande e i vestiti infilati dentro. Classiche robe che vedi lì e pensi: fantastico mi ci siederò in salotto quotidianamente. Ma tornato a casa ho capito subito che non li avrei mai usati, sono di una scomodità unica. Ecco il motivo per cui li trovate nei bagni”.
Il piano di sopra
La struttura del primo piano, quasi interamente a vista, è di ferro come gli infissi delle grandi finestre.
Nonostante il tipo di legno in sé non sia pregiato, ci rendiamo conto salendo che le scale comunicano una certa imponenza, forse per via dell’altezza del soffitto o dei quadri orientali disposti a croce. Quadri che, tra parentesi, Clemente vorrebbe sostituire con qualcosa che metta in evidenza le caratteristiche dello spazio, come un drappo.
Arrivati in cima, la casa acquista tutta una nuova prospettiva. Oltre allo studio e la zona notte alle nostre spalle, le librerie che corrono lungo il muro sono popolate di oggetti bizzarri come un portapipe antico, modellini di imbarcazioni, dipinti illuminati con luci d’effetto e, last but not least, l’amico fenicottero.
Lo studio è un ambiente interessante, raccolto ma sospeso su uno spazio immenso. Sembra quasi di volare.
“Questa zona è stata disabitata per dieci anni” racconta Clemente. “Mio padre ci aveva messo il salottino della televisione. Odiava averla in salotto, sapete quelle robe da vecchi snob, e quindi giù c’era il salotto per le occasioni e questo era il salottino per la televisione. Io l’ho trasformato in studio, ma non l’ho mai usato davvero”. Dall’inizio del lockdown, invece, l’ha rimesso in ordine e ha iniziato a lavorarci ogni giorno.
“Ma questo pavimento?” chiede l’architetto, estasiata. Camminarci sopra le dà una sensazione bellissima e le ricorda la trama del tatami. Sì, ci siamo levate le scarpe anche noi, e stiamo girando per la casa a piedi nudi come se fosse la cosa più naturale del mondo. “Essendo il soffitto molto basso” spiega Clemente, toccandolo con il palmo della mano aperta per una dimostrazione pratica “abbiamo scelto il rivestimento più piatto in assoluto, incollato direttamente al cemento”.
La stanza da letto è rimasta identica a quando ci dormiva suo padre. Una finestrella si apre sullo studio per far entrare un po’ più di luce. “Quella sciabola è lì per difenderti in caso che entrino i ladri?” Clemente ride. È una spada da militare di qualche suo antenato. È sempre stata in casa sua, ma i suoi genitori la tenevano nascosta per paura che da bambino la usasse per fare male a qualcuno.
Impossibile concludere il tour senza menzionare l’enorme cabina armadio, con tanto di portacravatte elettrico, sogno di tutti noi, e della stanza per le scarpe. Scarpe che non usa, perché ne indossa solo due (a stagione).
In giardino
Al termine del giro torniamo in giardino per scoprire la storia del cancello. “Avevo bisogno di chiudere il passaggio, ma non volevo una cosa standard. Alla fine ho messo al lavoro i miei amici designer e lo abbiamo progettato insieme. Sulle fessure ci siamo confrontati a lungo e siamo arrivati a riprodurlo in cartone a grandezza naturale: dovevano dare un senso di apertura, ma non lasciare che si vedesse dentro. Insomma, una fatica! Ma secondo me è venuto bene”.
Sono passate oltre due ore e mezzo da quando siamo arrivate. Ci chiediamo se mostrarci il cancello non sia un messaggio subliminale e senza bisogno di cercare una conferma lo avvertiamo che per noi è giunta l’ora di andare. Clemente ci accompagna fino al grande cancello condominiale camminando a piedi nudi sull’asfalto rovente. Chissà se ha qualche colpa da espiare o è solo abituato così. È stato talmente bello, ci diciamo dopo averlo salutato, che ci siamo perfino dimenticati di mangiare il gelato. "Calorie in meno” commenta Bianca. “E storie in più” rispondo io, mentre ci infiliamo nella macchina arroventata, allegre e soddisfatte come se l’avessimo assaggiato.
Cosa abbiamo imparato
Se sei alto ma hai il soffitto basso, il rivestimento simil tatami da incollare direttamente sul cemento ci sembra un’ottima idea. Non è solo bello, resistente e lavabile, ma dona anche una piacevole sensazione ai piedi. Levarsi le scarpe è d’obbligo.
Le greche adesive fanno una gran scena! Da tenerlo presente per le pareti bicolor. E non solo.
Vuoi conferire una nuova identità a un semplice armadio Ikea? Basta dipingerlo in due colori per ottenere un effetto da mobile antico di famiglia, in stile provenzale. Se poi monti le maniglie al contrario come ha fatto Clemente, ci appendi anche le camicie ;)
Vedo, non vedo. Soprattutto: non vedo!
Le finestre che danno sul passaggio esterno sono state opacizzate durante la ristrutturazione con della semplice vernice bianca che col tempo sta sbiadendo. Volendo trovare una soluzione semplice, poco costosa e più omogenea, esistono delle pellicole con effetto vetro satinato da incollare direttamente sui vetri. Se vuoi un “effetto cattedrale” ci sono anche quelle colorate :)
Umidità facile da riscontrare, non sempre semplice da risolvere...
La cosa più importante per risolvere a fondo il problema dell’umidità è individuare con quale tipo di umidità abbiamo a che fare. Forse non tutti sanno che ne esistono diverse, almeno dodici. Dipendono da tanti fattori, come la composizione della muratura, del terreno, il tipo di costruzione, etc. La casa di Clemente soffre probabilmente di un problema di umidità di risalita, essendo semi interrata. Sua madre ha mascherato molto bene il problema in salotto grattando via l'intonaco danneggiato e dando una mano di vernice colorata, ma non essendo questa una soluzione risolutiva il problema ha cominciato a riemergere.
Esistono varie soluzioni più durature. Dal sanificare il vespaio e impermeabilizzare la fondamenta, che sarebbe risolutivo ma comporterebbe una grossa spesa e mesi di lavoro, al semplice inserimento di un sistema di VMC, ventilazione meccanica controllata. Si potrebbe anche rimuovere intonaco e malta dai muri, farli asciugare e rifare l’intonaco scegliendone uno macroporoso deumidificante, su cui passare una mano di pittura specifica ultra traspirante. Consigliamo di rivolgersi a un esperto del settore, che con un'analisi approfondita può identificare il tipo di umidità in questione e consigliarti la soluzione più adatta.
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