Testo: Lorenza Gentile, la scrittrice
Foto: Bianca Rizzi, l’architetta
Curiosa, eclettica, ironica, buffa, profonda, Anna è una pittrice e un’artista in senso lato e anche il suo modo di vivere e di vivere la casa ha un che di artistico. Ha tenuto la sua prima mostra personale presso la galleria Antonia Jannone a Milano, nel 1998. Tra il il 2007 e il 2009 ha esplorato attraverso la pittura il quartiere in cui abita: Chinatown. I suoi ritratti di giovani cinesi perfettamente inseriti nella movida milanese sono stati esposti presso lo Spazio Orso 16 di Milano, lo Spazio per l’arte contemporanea di Lugano e lo Spazio Nuovo Centro Internazionale di Brera. Dopo aver vissuto in varie città fuori dall’Italia, come Parigi e Londra, da molto tempo vive a Milano. È un’amante delle piante (pollice verde invidiabile), dell’arte, degli oggetti, delle persone. Si è trasferita in questa casa vent’anni fa con suo figlio Giulio, che al momento vive in Inghilterra. Da anni la condivide con Dario, il suo compagno. Un artista anche lui.
Le indicazioni ci sembravano precise, ma siamo riuscite a perderci comunque. “La casa di Anna è nel cortile interno con le piante, accanto all’entrata potete lasciare le bici” ci aveva detto il portiere. Abbiamo superato il primo grande cortile sotto gli occhi perplessi di un bambino dai tratti asiatici che campeggiava su un balcone del primo piano. Nel piccolo cortile in fondo di piante ne troviamo tante, ma nessuna traccia della casa di Anna. Torniamo nella corte principale dove lasciamo le bici, confuse, fino a quando non intravediamo un terzo cortile, su un lato. Ci rechiamo lì a piedi. Ecco la rastrelliera per le bici! Accanto, come indicato, una casa seminascosta da enormi piante in ottima salute. Telefoniamo ad Anna, per non correre il rischio di suonare al campanello sbagliato. Sentiamo il trillo attraverso la finestra aperta.
Anna si affaccia. Ci sorride, sembra non sapere cosa fare con le mani. Di primo acchito mi chiedo se la stiamo mettendo in imbarazzo, più tardi capisco che è semplicemente fatta così. Ha un modo di fare aperto, con il sorriso a fior di labbra, come se trovasse buffa o indecifrabile la vita e avesse rinunciato a capirla. Meglio prenderla così com’è, senza volerla controllare. Bianca si complimenta per le piante di alocasia e lei, con candore, ci incoraggia a prenderne uno stelo in vaso.
Ecco com’è Anna, prima ancora di invitarci a entrare, ci ha regalato una pianta.
La seguiamo dentro casa. Passando velocemente per la cucina, la prima stanza che visitiamo è lo studio. Scopriamo che è proprio da quello che è cominciato tutto. Quando l’ha visitata la prima volta, la casa era un magazzino di manifesti d’arte. Uno spazio unico con i finestroni. “Camminando mi son detta che c’era una buona energia. Non c’era nessuno sopra o sotto e mi sentivo molto leggera. Venivo dal terzo piano senza ascensore, quindi trovavo molto comodo essere al piano terra. In realtà, è umido. Sei tra un giardino e il cortile, sopra hai il tetto, sotto la terra. Ma io cercavo uno studio e questo posto era perfetto. Avevo pensato di usarne una parte e affittare il resto. Poi le cose sono andate diversamente e mi ci sono trasferita con Giulio, mio figlio, che all’epoca aveva circa otto anni. Sto parlando di due decadi fa”.
Lo studio - laboratorio
“Non devi passare molto tempo al computer!” commenta Bianca notando la piccola sedia di ferro davanti al grande pc. “Basta vedere quel seggiolino”. “In effetti” ammette Anna, “è per stare dritta”.
Un tempo, ci spiega, quello era il ripiano dove lavorava di fianco a Giulio. Poi lui si è portato il computer in camera sua. Però il laboratorio hanno continuato a condividerlo. “Era spesso qua mentre dipingevo. Io gli avevo detto che vivevamo in uno studio e quindi c’erano delle cose da fare. Inizialmente dipingeva i War Hammers, poi ha cominciato con gli esperimenti con la fiamma ossidrica, scioglieva plastica. Si costruiva i travestimenti per carnevale. Ha dipinto dei quadri. Ho insegnato a dipingere a lui e a un gruppo di suoi amici quando erano ragazzi. Ora due di loro fanno gli architetti, uno fa il medico ma disegna benissimo, al punto che si è riempito il corpo di tatuaggi”. Anna ha poi fatto a ognuno di loro un ritratto che è diventata una serie. Nella casa sono disseminate opere di Anna, ma le pareti sono occupate anche da quelle di Dario.
“Il quadro verde e viola sulla destra è la mia ultima creazione. Non è ancora finito. Raffigura dei tessuti africani insieme a due dragoni di porcellana, che ho di là in cucina. Volevo renderlo un po’ psichedelico, a vari livelli. La mia ispirazione nasce dalle cose che mi sono vicine. Se un quadro funziona ne faccio di più, ipotizzo una serie, penso a un progetto. Ci sono dei quadri che non mi vengono bene come avrei desiderato. Fa parte del gioco. Certe cose non ti vengono proprio. È sempre utile però, mi dico, sempre lavoro, impari, fai delle ricerche… mettiamola così”
“L’Evil box, il videogioco verde, è un’opera di Dario. Dario ha fatto parte di un gruppo artistico che si chiamava gli Ultrapop, erano in quattro. Poi si sono sciolti, come i gruppi rock. Questo è stato esposto anche al Pac nel 2000-2001, all’interno della mostra Sui generis curata da Alessandro Riva. Noi non ci conoscevamo ancora, ma ero stata alla mostra”.
Colore, colore!
Impossibile non notare le pareti colorate in questa casa. Il bello è che c’è una storia per ogni colore e una per il colore in cui erano dipinte prima. È nato tutto da Giulio. Inizialmente la casa era completamente bianca, solo il pavimento dell’ingresso era rosso fluo “così vedevi il gradino”. Poi Giulio ha raggiunto l’adolescenza e ha voluto dare un po’ di colore. L’entrata è diventata blu scuro, con una lampada a stella di latta, intagliata, che pendeva dal soffitto. “Così entravi e ti sembrava di essere in una disco” commenta Anna ridendo. Il corridoio della zona notte, invece, era completamente giallo, "perché Giulio collaborava con lo Shocking (una discoteca di Milano, ndr) e voleva sentirsi a casa”. Giulio ha ricoperto le pareti della sua stanza di graffiti, “ma vabbè quello comunque era il suo spazio”. In quella camera ora dormono lei e Dario, ma una parte dei graffiti Anna l’ha tenuta. Un giorno ha trovato suo figlio che dipingeva una parete del bagno di verde, così è rimasta.
Be’, diciamo noi, è molto bello che l’abbia fatto esprimere, non tutti i genitori lo farebbero. “Eh, ci viveva anche lui, qua dentro” risponde Anna, con il suo sorriso. E poi orgogliosa: “Ora è architetto paesaggista”. La formazione artistica, a casa, deve aver avuto la sua importanza.
Recentemente, Anna ha ridipinto la cucina. “Le pareti rosa sono una novità. Prima era verde, bello eh, sembrava di stare in una giungla anche perché l’inverno tutte le piante giganti che abbiamo visto fuori vengono ospitate qui. Le pareti della cucina sono state verdi per dieci anni. Purtroppo un anno e mezzo fa se n’è andato il mio gatto Tito, col quale vivevo in simbiosi. Un mese prima che scoprissi che stava per morire me lo sono trovata in sogno. Era sdraiato tipo sfinge sul mio braccio e mi ha diretto al ‘tempio dei gatti’, che era tutto rosa. Pieno di gatti. Ho deciso di dipingere queste pareti in suo onore. Sono belle, vero?” Ci chiede una conferma, come se ce ne fosse bisogno. Ci piacciono molto.
“Una mia amica mi aveva suggerito di fare un bordo d’oro, sopra. Come potete vedere ho provato, ma non non mi corrispondeva. Faceva tanto palazzo primi Novecento, ma questo è un magazzino! L’ho coperto col bianco. Dove non arrivo, sto aspettando che Dario mi aiuti a spostare il tavolo. Comunque, prima o poi finiremo il lavoro”.
“Questi sono i due draghi che avete visto ritratti nel quadro a cui sto lavorando adesso, nello studio. Li ho comprati a un mercatino. Erano completamente bianchi, tanto che ero convinta fossero di ceramica bianca, che a me piace molto. Li ho messi in un catino con un po’ d’acqua per lavarli e li ho dimenticati quattro o cinque giorni a mollo. Quando li ho strofinati con uno spazzolino è venuta via la vernice e sotto erano così. Coloratissimi. Sono belli, no?”.
Beviamo un caffè in cucina, ammirando il mobile pieno di scomparti. Anna ci racconta che era di una zia, che lo aveva in camera sua e voleva disfarsene. L’ha venduto alla nonna di Anna, che ai tempi l’ha comprato per cinquecento lire. In famiglia nessuno lo voleva, così dopo vari giri alla fine è arrivato ad Anna. Lei e Giulio hanno pensato di mascherare l’interno con le cartoline. “O hai delle cose bellissime e sei molto ordinato, oppure meglio coprire”. Era un periodo in cui lei e il figlio si divertivano a creare degli identikit online di persone inventate, così hanno cominciato a fissarle alla vetrina. Col tempo, la gamma di immagini si è espansa. Anna ha cambiato anche le maniglie del mobile, scegliendo quelle a forma di granchio. Ci racconta della grande porta rossa scorrevole che dà sullo studio. In questo caso non c’è lo zampino di Giulio. “Il falegname mi ha chiesto: di che colore? Io dentro di me ho pensato: boh. Ho detto: rosso. Quando le pareti erano verdi non ci stava molto bene, ma ora con il rosa secondo me sì. Poi, in un quartiere cinese!”
“Ho trovato questo mobile abbandonato in cortile e ho deciso di ridipingerlo. Ho scelto una poesia in Giapponese, senza sapere cosa significa esattamente, ma sono quasi certa parli d’amore… Con il centro nero però sembrava un po’ una lavatrice, così ho aggiunto il fiore”.
“La maschera africana appesa in alto a sinistra ha una storia importante. Ogni anno che Giulio veniva promosso alle elementari, andavamo sul molo di Lerici dove c’era un ragazzo africano che vendeva delle maschere. Belle devo dire, essendo stata in Africa sapevo riconoscerlo. Ogni anno gli regalavo una maschera. Questa, invece, è l’unica mia. Quella del lutto. Perché c’è un lutto in ognuno di noi, in fondo. Che sia un lutto, che sia una tristezza. E per questo la ritraggo spesso”.
In salotto
“Tutti quando vengono qui vogliono stare in cucina, a me piace il salotto”. E noi ci mettiamo comode volentieri. “Mi chiedete quando vivo la mia casa” dice, “sempre”.
“Ho fatto i compiti” dispone i fogli scritti sulle ginocchia, seduta sul divano. Ha già risposto alle domande che le abbiamo mandato per iscritto. È preparatissima.
L’architetto che ha seguito la ristrutturazione di questa casa è Antonio Zanuso. “Innanzitutto, penso che per voi possa essere interessante sapere che qui non c’era niente quando ho comprato lo spazio. Neanche il piano sopra. La scala è arrivata sei mesi dopo che abbiamo rifatto la casa!” ride. Le chiediamo cos’era importante per lei, nella ristrutturazione. “Mettere le porte” risponde. “Bello il concetto del loft, tutti insieme, che gioia (che poi è come voglio vivere io la casa) però se vuoi chiuderti in camera, devi poterlo fare”.
L’umidità è un problema e Anna non potrebbe trovare un’interlocutrice più comprensiva di Bianca, anche lei abita da poco in una casa terra cielo. “D’estate si sta benissimo”, spiega Anna, “ma d’inverno devi sempre tenere il riscaldamento. Avremmo dovuto fare la serpentina per terra, ma non ci abbiamo pensato. Il pavimento è di stucco, che ho ricoperto di resina, così se lo macchio quando dipingo, posso sempre dargli un’altra mano di bianco”.
“Le vecchie poltrone da cinema erano in una casa in cui vivevo tempo fa, posizionate davanti all’ascensore. Vivevamo al quinto piano e l’ascensore era lentissimo. Eravamo in affitto da mio cugino, aveva messo le seggioline per l’attesa. Poi quando ha venduto la casa me le ha regalate. Sono ottime per una come me a cui piace molto ospitare.”
Ciclicamente gli oggetti della casa cambiano. Ci sono vari altarini, legati alla contemplazione. "Quando trovo oggetti che mi piacciono, li porto a casa se posso e spesso finisco per dipingerli. Come la lampada nel quadro della cucina. L’avevo trovata in un mercatino delle pulci a Parigi, ma quando l’ho comprata non sapevo che l’avrei dipinta. Poi c’è il mio negozio preferito: il cortile. Buttano le cose e io le prendo. Le metto a posto. Tanti degli oggetti e dei mobili che vedete in questa casa sono stati trovati abbandonati per strada. Il divano rosa su cui siete sedute, per esempio, o la poltrona, che ha trovato Giulio”. “Dovrei cominciare a passeggiare con te d’ora in poi” dice Bianca. “io non trovo mai niente!” Nemmeno io, solo sedie sfondate o divani distrutti dai gatti. Se potesse comprerebbe molto design, dice, ma il riciclo è una cosa di cui va fiera. “In realtà” ci sorprende, “vorrei la casa vuota. Mi piace lo spazio. Secondo me è un po’ pieno qua dentro”.
Le piace ospitare, ci svela, sempre leggendo dai suoi appunti. Negli anni, quando era sola con Giulio, ha affittato spesso una stanza. Una volta a un fotografo, una volta a un regista. “Sempre dei bei personaggi, non invadenti, interessanti. Non hanno mai cucinato niente, a parte uno tedesco di Berlino, assistente scenografo alla Scala, che alle sei di mattina faceva la prima colazione russa. Una puzza tremenda. Si offriva di cucinarla anche per noi”.
“Sul tavolo qui in salotto vedete una miriade di oggetti con provenienze diverse. Io sono una yogina, quindi ci sono vari altarini, miei e di Dario. C’è poi il giaguaro, uno dei miei oggetti preferiti. Me l’ha regalato mio padre durante un viaggio stupendo che abbiamo fatto in Africa. Ha lavorato per anni in Nigeria durante i miei vent’anni, più o meno, e lo andavo a trovare spesso”.
Di come Paolo Sarpi è diventato Chinatown
“Abitavo già qui nella zona, prima di acquistare questa casa”. Un quartiere che le è sempre piaciuto, con i biscottifici, la cappelleria Melegari (che c’è ancora), bar bellissimi, negozi interessanti. Un quartiere piccolo borghese, popolare, che ha subito molte trasformazioni interessanti in questi anni. Nel 2005 c’è stata la grande ondata di cinesi, che ha portato nuova linfa, conferendogli un aspetto più multietnico e cosmopolita. “Nel 2007 ho fatto due mostre sul tema, tanto è stato forte l’impatto”. Il quartiere poi si è evoluto ancora grazie alla nuova Fondazione Feltrinelli, al bar/co-working Otto, al fatto che via Paolo Sarpi è diventata pedonale. “Qui ti senti in un mondo a sé. Appena varchi “il confine”, come lo chiamo io, che è piazzale Baiamonti, ed entri qui senti subito la differenza. Mi piace viverci, è molto cosmopolita”.
Anna ci racconta che la zona ha origini antichissime. “Ho scoperto che un tempo si chiamava il borgo degli ortolani, esiste anche un libro a riguardo, scritto da Tullo Montanari. Nel trecento qui c’erano gli orti di Milano e un grande bosco. Da piazzale Baiamonti passava il fiume Nirone, dove la gente andava a lavare i panni e c’erano un sacco di ruscelli e delle cascine. Era una zona molto fertile, dove Sant’Ambrogio veniva a meditare”. La stiamo guardando affascinate dal racconto. Non avevamo idea di tutto questo. “Questo quartiere mi piace anche perché se prendi la bicicletta sei vicino a tutto ed è ben collegato anche con i mezzi” conclude, “È in continuo movimento e io cerco sempre di vivere i tempi come cambiano”.
Di Sotto
Percorriamo il corridoio buttando un occhio nello studio di Dario, che sta lavorando. Gli chiediamo se possiamo fotografarlo. “Certo” ci dice gentilmente, ma poi si fa tutt’uno con la porta… Non deve piacergli molto l’obiettivo! D’altra parte stava creando. Ci scusiamo per l’invasione e passiamo oltre.
È la volta del bagno tutto verde. Nella vasca riposa una grande lampada bianca, trovata da Anna nella spazzatura. Il paralume ondulato è bellissimo, ma davvero rovinato, Anna non sa se riuscirà a recuperarlo. Tempo zero, prende la lampada e la sposta altrove. Neanche il tempo di una fotografia! Forse anche la lampada non ama l’obiettivo…
Il quadro danneggiato appeso sopra la vasca è stato dipinto dalla sorella della bisnonna di Anna, che era una pittrice. Le pareti della stanza sono state pitturate da Giulio. “Dovrebbe dirmi che verde ha usato, così potrei farlo fino in alto e renderlo omogeneo. Insomma in questa casa è sempre un work in progress” ci dice Anna, quasi imbarazzata. Noi siamo in estasi, invece! Per finire, la camera da letto di Anna e Dario, con un parte dei graffiti che Giulio ha fatto tempo fa.
Di sopra
Sopra è il regno di Giulio. “Questa secondo me è la stanza più bella”, dice Anna precedendoci fino alla camera da letto mansardata. Era infatti la camera che aveva scelto per sé una volta entrata in questa casa, ma a diciassette anni suo figlio ha chiesto di invertire le sistemazioni, occupando il piano di sopra per intero.
Dormiva nello spazio nascosto dalla tenda giapponese, che loro chiamano “capsula” e ora è “un po’ un magazzino”. La sua fidanzata, al tempo, ha applicato le stelline sul soffitto, come se non fosse stato già abbastanza romantico. In quella che ora è la stanza da letto, invece, c’era il suo studio di architettura e nel sottotetto lo studio di registrazione dove componeva musica. “Si era sistemato bene, insomma”.
“Giulio si è costruito questa porticina. Si chiudeva qua dentro, con i suoi amici. Ci stavano ore. Sistemava tutta l’apparecchiatura sul tavolo da cucina ereditato dalla nonna Letizia. E componeva la musica. Aveva messo anche la gommapiuma insonorizzante, ma il problema erano i bassi, le vibrazioni si sentivano comunque”
Anna, Giulio, Dario
Anche nell’assenza, Giulio si svela attraverso le sue tracce, è come se abitasse ancora la casa. E finalmente lo vediamo. Lo vediamo proprio come è stato un tempo, nel ritratto che gli ha fatto sua madre.
Anche Dario, che abbiamo solo intravisto, ci sembra un po’ di conoscerlo attraverso le sue opere e gli oggetti sparsi per la casa.
Ad Anna piace condividere gli spazi. E noi la vediamo adattarsi. Al colore delle pareti, agli oggetti degli altri, al cambio di stanza, alle presenze che vengono da fuori. Fa pensare all’acqua che cambia forma a seconda del contenitore in cui è messa senza per questo cambiare la sua essenza. È una cosa che ti rende libero. Dovrei imparare da lei, mi dico. Che lo vogliamo o meno, il luogo in cui viviamo è un ambiente in continuo movimento, come il quartiere in cui è inserita.
“Alla fine, non cambierei casa” ci dice, senza che glielo chiedessimo.
Lo prendiamo come un commento sulla vita in generale: a prescindere dalle cose che avrei voluto fare diversamente, non cambierei niente.
Ci piace.
Amate la leggerezza fisica e metaforica? Fate un pavimento bianco in resina a cuor leggero, se lo macchiate o vi stufate, basta una mano di vernice. Come nuovo!
Ma che belle le maniglie dell’armadio in camera da letto e del mobile in cucina: nuovi pomelli applicati su mobili antichi... agli occhi più attenti potrebbero raccontare una storia!
Come non amare il mobile-lavatrice? Anna insegna: per rinnovare un vecchio mobiletto può bastare una mano di colore e, perché no, una poesia. Purché non si sappia di cosa si tratta :)
Aria pura in luogo privato
Anna è un’artista, è abituata a pensare in modo creativo, le soluzioni pratiche questa volta le ha suggerite lei. Dato che Giulio non usa più il vano ripostiglio al piano mansardato per comporre musica, si potrebbe aprire proprio in quel punto per ospitare un piccolo terrazzino. I vicini ce l’hanno e non ostruirebbe la vista di nessuno. Da grandi amanti di terrazzi e terrazzini non possiamo che essere d’accordo: sarebbe stupendo in una casa così avere anche un piccolo spazio esterno privato, dove potersi rilassare, leggere, mangiare in compagnia o prendere il sole l’estate... Ci inviterà?
Aria!
A detta di Anna la casa è un po’ umida e le è venuta un’idea. Certo, non è un’idea economica e ottenere i permessi non è affatto scontato, ma se fosse possibile perché non aprire delle finestrelle in salotto, in alto, lungo la parete senza finestre che confina con il giardino dei vicini, per aggiungere un po’ di ventilazione alla stanza? Noi diciamo sì!
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Testo: Lorenza Gentile, la scrittrice
Foto: Bianca Rizzi, l’architetta
Curiosa, eclettica, ironica, buffa, profonda, Anna è una pittrice e un’artista in senso lato e anche il suo modo di vivere e di vivere la casa ha un che di artistico. Ha tenuto la sua prima mostra personale presso la galleria Antonia Jannone a Milano, nel 1998. Tra il il 2007 e il 2009 ha esplorato attraverso la pittura il quartiere in cui abita: Chinatown. I suoi ritratti di giovani cinesi perfettamente inseriti nella movida milanese sono stati esposti presso lo Spazio Orso 16 di Milano, lo Spazio per l’arte contemporanea di Lugano e lo Spazio Nuovo Centro Internazionale di Brera. Dopo aver vissuto in varie città fuori dall’Italia, come Parigi e Londra, da molto tempo vive a Milano. È un’amante delle piante (pollice verde invidiabile), dell’arte, degli oggetti, delle persone. Si è trasferita in questa casa vent’anni fa con suo figlio Giulio, che al momento vive in Inghilterra. Da anni la condivide con Dario, il suo compagno. Un artista anche lui.
Le indicazioni ci sembravano precise, ma siamo riuscite a perderci comunque. “La casa di Anna è nel cortile interno con le piante, accanto all’entrata potete lasciare le bici” ci aveva detto il portiere. Abbiamo superato il primo grande cortile sotto gli occhi perplessi di un bambino dai tratti asiatici che campeggiava su un balcone del primo piano. Nel piccolo cortile in fondo di piante ne troviamo tante, ma nessuna traccia della casa di Anna. Torniamo nella corte principale dove lasciamo le bici, confuse, fino a quando non intravediamo un terzo cortile, su un lato. Ci rechiamo lì a piedi. Ecco la rastrelliera per le bici! Accanto, come indicato, una casa seminascosta da enormi piante in ottima salute. Telefoniamo ad Anna, per non correre il rischio di suonare al campanello sbagliato. Sentiamo il trillo attraverso la finestra aperta.
Anna si affaccia. Ci sorride, sembra non sapere cosa fare con le mani. Di primo acchito mi chiedo se la stiamo mettendo in imbarazzo, più tardi capisco che è semplicemente fatta così. Ha un modo di fare aperto, con il sorriso a fior di labbra, come se trovasse buffa o indecifrabile la vita e avesse rinunciato a capirla. Meglio prenderla così com’è, senza volerla controllare. Bianca si complimenta per le piante di alocasia e lei, con candore, ci incoraggia a prenderne uno stelo in vaso.
Ecco com’è Anna, prima ancora di invitarci a entrare, ci ha regalato una pianta.
La seguiamo dentro casa. Passando velocemente per la cucina, la prima stanza che visitiamo è lo studio. Scopriamo che è proprio da quello che è cominciato tutto. Quando l’ha visitata la prima volta, la casa era un magazzino di manifesti d’arte. Uno spazio unico con i finestroni. “Camminando mi son detta che c’era una buona energia. Non c’era nessuno sopra o sotto e mi sentivo molto leggera. Venivo dal terzo piano senza ascensore, quindi trovavo molto comodo essere al piano terra. In realtà, è umido. Sei tra un giardino e il cortile, sopra hai il tetto, sotto la terra. Ma io cercavo uno studio e questo posto era perfetto. Avevo pensato di usarne una parte e affittare il resto. Poi le cose sono andate diversamente e mi ci sono trasferita con Giulio, mio figlio, che all’epoca aveva circa otto anni. Sto parlando di due decadi fa”.
Lo studio - laboratorio
“Non devi passare molto tempo al computer!” commenta Bianca notando la piccola sedia di ferro davanti al grande pc. “Basta vedere quel seggiolino”. “In effetti” ammette Anna, “è per stare dritta”.
Un tempo, ci spiega, quello era il ripiano dove lavorava di fianco a Giulio. Poi lui si è portato il computer in camera sua. Però il laboratorio hanno continuato a condividerlo. “Era spesso qua mentre dipingevo. Io gli avevo detto che vivevamo in uno studio e quindi c’erano delle cose da fare. Inizialmente dipingeva i War Hammers, poi ha cominciato con gli esperimenti con la fiamma ossidrica, scioglieva plastica. Si costruiva i travestimenti per carnevale. Ha dipinto dei quadri. Ho insegnato a dipingere a lui e a un gruppo di suoi amici quando erano ragazzi. Ora due di loro fanno gli architetti, uno fa il medico ma disegna benissimo, al punto che si è riempito il corpo di tatuaggi”. Anna ha poi fatto a ognuno di loro un ritratto che è diventata una serie. Nella casa sono disseminate opere di Anna, ma le pareti sono occupate anche da quelle di Dario.
“Il quadro verde e viola sulla destra è la mia ultima creazione. Non è ancora finito. Raffigura dei tessuti africani insieme a due dragoni di porcellana, che ho di là in cucina. Volevo renderlo un po’ psichedelico, a vari livelli. La mia ispirazione nasce dalle cose che mi sono vicine. Se un quadro funziona ne faccio di più, ipotizzo una serie, penso a un progetto. Ci sono dei quadri che non mi vengono bene come avrei desiderato. Fa parte del gioco. Certe cose non ti vengono proprio. È sempre utile però, mi dico, sempre lavoro, impari, fai delle ricerche… mettiamola così”
“L’Evil box, il videogioco verde, è un’opera di Dario. Dario ha fatto parte di un gruppo artistico che si chiamava gli Ultrapop, erano in quattro. Poi si sono sciolti, come i gruppi rock. Questo è stato esposto anche al Pac nel 2000-2001, all’interno della mostra Sui generis curata da Alessandro Riva. Noi non ci conoscevamo ancora, ma ero stata alla mostra”.
Colore, colore!
Impossibile non notare le pareti colorate in questa casa. Il bello è che c’è una storia per ogni colore e una per il colore in cui erano dipinte prima. È nato tutto da Giulio. Inizialmente la casa era completamente bianca, solo il pavimento dell’ingresso era rosso fluo “così vedevi il gradino”. Poi Giulio ha raggiunto l’adolescenza e ha voluto dare un po’ di colore. L’entrata è diventata blu scuro, con una lampada a stella di latta, intagliata, che pendeva dal soffitto. “Così entravi e ti sembrava di essere in una disco” commenta Anna ridendo. Il corridoio della zona notte, invece, era completamente giallo, "perché Giulio collaborava con lo Shocking (una discoteca di Milano, ndr) e voleva sentirsi a casa”. Giulio ha ricoperto le pareti della sua stanza di graffiti, “ma vabbè quello comunque era il suo spazio”. In quella camera ora dormono lei e Dario, ma una parte dei graffiti Anna l’ha tenuta. Un giorno ha trovato suo figlio che dipingeva una parete del bagno di verde, così è rimasta.
Be’, diciamo noi, è molto bello che l’abbia fatto esprimere, non tutti i genitori lo farebbero. “Eh, ci viveva anche lui, qua dentro” risponde Anna, con il suo sorriso. E poi orgogliosa: “Ora è architetto paesaggista”. La formazione artistica, a casa, deve aver avuto la sua importanza.
Recentemente, Anna ha ridipinto la cucina. “Le pareti rosa sono una novità. Prima era verde, bello eh, sembrava di stare in una giungla anche perché l’inverno tutte le piante giganti che abbiamo visto fuori vengono ospitate qui. Le pareti della cucina sono state verdi per dieci anni. Purtroppo un anno e mezzo fa se n’è andato il mio gatto Tito, col quale vivevo in simbiosi. Un mese prima che scoprissi che stava per morire me lo sono trovata in sogno. Era sdraiato tipo sfinge sul mio braccio e mi ha diretto al ‘tempio dei gatti’, che era tutto rosa. Pieno di gatti. Ho deciso di dipingere queste pareti in suo onore. Sono belle, vero?” Ci chiede una conferma, come se ce ne fosse bisogno. Ci piacciono molto.
“Una mia amica mi aveva suggerito di fare un bordo d’oro, sopra. Come potete vedere ho provato, ma non non mi corrispondeva. Faceva tanto palazzo primi Novecento, ma questo è un magazzino! L’ho coperto col bianco. Dove non arrivo, sto aspettando che Dario mi aiuti a spostare il tavolo. Comunque, prima o poi finiremo il lavoro”.
“Questi sono i due draghi che avete visto ritratti nel quadro a cui sto lavorando adesso, nello studio. Li ho comprati a un mercatino. Erano completamente bianchi, tanto che ero convinta fossero di ceramica bianca, che a me piace molto. Li ho messi in un catino con un po’ d’acqua per lavarli e li ho dimenticati quattro o cinque giorni a mollo. Quando li ho strofinati con uno spazzolino è venuta via la vernice e sotto erano così. Coloratissimi. Sono belli, no?”.
Beviamo un caffè in cucina, ammirando il mobile pieno di scomparti. Anna ci racconta che era di una zia, che lo aveva in camera sua e voleva disfarsene. L’ha venduto alla nonna di Anna, che ai tempi l’ha comprato per cinquecento lire. In famiglia nessuno lo voleva, così dopo vari giri alla fine è arrivato ad Anna. Lei e Giulio hanno pensato di mascherare l’interno con le cartoline. “O hai delle cose bellissime e sei molto ordinato, oppure meglio coprire”. Era un periodo in cui lei e il figlio si divertivano a creare degli identikit online di persone inventate, così hanno cominciato a fissarle alla vetrina. Col tempo, la gamma di immagini si è espansa. Anna ha cambiato anche le maniglie del mobile, scegliendo quelle a forma di granchio. Ci racconta della grande porta rossa scorrevole che dà sullo studio. In questo caso non c’è lo zampino di Giulio. “Il falegname mi ha chiesto: di che colore? Io dentro di me ho pensato: boh. Ho detto: rosso. Quando le pareti erano verdi non ci stava molto bene, ma ora con il rosa secondo me sì. Poi, in un quartiere cinese!”
“Ho trovato questo mobile abbandonato in cortile e ho deciso di ridipingerlo. Ho scelto una poesia in Giapponese, senza sapere cosa significa esattamente, ma sono quasi certa parli d’amore… Con il centro nero però sembrava un po’ una lavatrice, così ho aggiunto il fiore”.
“La maschera africana appesa in alto a sinistra ha una storia importante. Ogni anno che Giulio veniva promosso alle elementari, andavamo sul molo di Lerici dove c’era un ragazzo africano che vendeva delle maschere. Belle devo dire, essendo stata in Africa sapevo riconoscerlo. Ogni anno gli regalavo una maschera. Questa, invece, è l’unica mia. Quella del lutto. Perché c’è un lutto in ognuno di noi, in fondo. Che sia un lutto, che sia una tristezza. E per questo la ritraggo spesso”.
In salotto
“Tutti quando vengono qui vogliono stare in cucina, a me piace il salotto”. E noi ci mettiamo comode volentieri. “Mi chiedete quando vivo la mia casa” dice, “sempre”.
“Ho fatto i compiti” dispone i fogli scritti sulle ginocchia, seduta sul divano. Ha già risposto alle domande che le abbiamo mandato per iscritto. È preparatissima.
L’architetto che ha seguito la ristrutturazione di questa casa è Antonio Zanuso. “Innanzitutto, penso che per voi possa essere interessante sapere che qui non c’era niente quando ho comprato lo spazio. Neanche il piano sopra. La scala è arrivata sei mesi dopo che abbiamo rifatto la casa!” ride. Le chiediamo cos’era importante per lei, nella ristrutturazione. “Mettere le porte” risponde. “Bello il concetto del loft, tutti insieme, che gioia (che poi è come voglio vivere io la casa) però se vuoi chiuderti in camera, devi poterlo fare”.
L’umidità è un problema e Anna non potrebbe trovare un’interlocutrice più comprensiva di Bianca, anche lei abita da poco in una casa terra cielo. “D’estate si sta benissimo”, spiega Anna, “ma d’inverno devi sempre tenere il riscaldamento. Avremmo dovuto fare la serpentina per terra, ma non ci abbiamo pensato. Il pavimento è di stucco, che ho ricoperto di resina, così se lo macchio quando dipingo, posso sempre dargli un’altra mano di bianco”.
“Le vecchie poltrone da cinema erano in una casa in cui vivevo tempo fa, posizionate davanti all’ascensore. Vivevamo al quinto piano e l’ascensore era lentissimo. Eravamo in affitto da mio cugino, aveva messo le seggioline per l’attesa. Poi quando ha venduto la casa me le ha regalate. Sono ottime per una come me a cui piace molto ospitare.”
Ciclicamente gli oggetti della casa cambiano. Ci sono vari altarini, legati alla contemplazione. "Quando trovo oggetti che mi piacciono, li porto a casa se posso e spesso finisco per dipingerli. Come la lampada nel quadro della cucina. L’avevo trovata in un mercatino delle pulci a Parigi, ma quando l’ho comprata non sapevo che l’avrei dipinta. Poi c’è il mio negozio preferito: il cortile. Buttano le cose e io le prendo. Le metto a posto. Tanti degli oggetti e dei mobili che vedete in questa casa sono stati trovati abbandonati per strada. Il divano rosa su cui siete sedute, per esempio, o la poltrona, che ha trovato Giulio”. “Dovrei cominciare a passeggiare con te d’ora in poi” dice Bianca. “io non trovo mai niente!” Nemmeno io, solo sedie sfondate o divani distrutti dai gatti. Se potesse comprerebbe molto design, dice, ma il riciclo è una cosa di cui va fiera. “In realtà” ci sorprende, “vorrei la casa vuota. Mi piace lo spazio. Secondo me è un po’ pieno qua dentro”.
Le piace ospitare, ci svela, sempre leggendo dai suoi appunti. Negli anni, quando era sola con Giulio, ha affittato spesso una stanza. Una volta a un fotografo, una volta a un regista. “Sempre dei bei personaggi, non invadenti, interessanti. Non hanno mai cucinato niente, a parte uno tedesco di Berlino, assistente scenografo alla Scala, che alle sei di mattina faceva la prima colazione russa. Una puzza tremenda. Si offriva di cucinarla anche per noi”.
“Sul tavolo qui in salotto vedete una miriade di oggetti con provenienze diverse. Io sono una yogina, quindi ci sono vari altarini, miei e di Dario. C’è poi il giaguaro, uno dei miei oggetti preferiti. Me l’ha regalato mio padre durante un viaggio stupendo che abbiamo fatto in Africa. Ha lavorato per anni in Nigeria durante i miei vent’anni, più o meno, e lo andavo a trovare spesso”.
Di come Paolo Sarpi è diventato Chinatown
“Abitavo già qui nella zona, prima di acquistare questa casa”. Un quartiere che le è sempre piaciuto, con i biscottifici, la cappelleria Melegari (che c’è ancora), bar bellissimi, negozi interessanti. Un quartiere piccolo borghese, popolare, che ha subito molte trasformazioni interessanti in questi anni. Nel 2005 c’è stata la grande ondata di cinesi, che ha portato nuova linfa, conferendogli un aspetto più multietnico e cosmopolita. “Nel 2007 ho fatto due mostre sul tema, tanto è stato forte l’impatto”. Il quartiere poi si è evoluto ancora grazie alla nuova Fondazione Feltrinelli, al bar/co-working Otto, al fatto che via Paolo Sarpi è diventata pedonale. “Qui ti senti in un mondo a sé. Appena varchi “il confine”, come lo chiamo io, che è piazzale Baiamonti, ed entri qui senti subito la differenza. Mi piace viverci, è molto cosmopolita”.
Anna ci racconta che la zona ha origini antichissime. “Ho scoperto che un tempo si chiamava il borgo degli ortolani, esiste anche un libro a riguardo, scritto da Tullo Montanari. Nel trecento qui c’erano gli orti di Milano e un grande bosco. Da piazzale Baiamonti passava il fiume Nirone, dove la gente andava a lavare i panni e c’erano un sacco di ruscelli e delle cascine. Era una zona molto fertile, dove Sant’Ambrogio veniva a meditare”. La stiamo guardando affascinate dal racconto. Non avevamo idea di tutto questo. “Questo quartiere mi piace anche perché se prendi la bicicletta sei vicino a tutto ed è ben collegato anche con i mezzi” conclude, “È in continuo movimento e io cerco sempre di vivere i tempi come cambiano”.
Di Sotto
Percorriamo il corridoio buttando un occhio nello studio di Dario, che sta lavorando. Gli chiediamo se possiamo fotografarlo. “Certo” ci dice gentilmente, ma poi si fa tutt’uno con la porta… Non deve piacergli molto l’obiettivo! D’altra parte stava creando. Ci scusiamo per l’invasione e passiamo oltre.
È la volta del bagno tutto verde. Nella vasca riposa una grande lampada bianca, trovata da Anna nella spazzatura. Il paralume ondulato è bellissimo, ma davvero rovinato, Anna non sa se riuscirà a recuperarlo. Tempo zero, prende la lampada e la sposta altrove. Neanche il tempo di una fotografia! Forse anche la lampada non ama l’obiettivo…
Il quadro danneggiato appeso sopra la vasca è stato dipinto dalla sorella della bisnonna di Anna, che era una pittrice. Le pareti della stanza sono state pitturate da Giulio. “Dovrebbe dirmi che verde ha usato, così potrei farlo fino in alto e renderlo omogeneo. Insomma in questa casa è sempre un work in progress” ci dice Anna, quasi imbarazzata. Noi siamo in estasi, invece! Per finire, la camera da letto di Anna e Dario, con un parte dei graffiti che Giulio ha fatto tempo fa.
Di sopra
Sopra è il regno di Giulio. “Questa secondo me è la stanza più bella”, dice Anna precedendoci fino alla camera da letto mansardata. Era infatti la camera che aveva scelto per sé una volta entrata in questa casa, ma a diciassette anni suo figlio ha chiesto di invertire le sistemazioni, occupando il piano di sopra per intero.
Dormiva nello spazio nascosto dalla tenda giapponese, che loro chiamano “capsula” e ora è “un po’ un magazzino”. La sua fidanzata, al tempo, ha applicato le stelline sul soffitto, come se non fosse stato già abbastanza romantico. In quella che ora è la stanza da letto, invece, c’era il suo studio di architettura e nel sottotetto lo studio di registrazione dove componeva musica. “Si era sistemato bene, insomma”.
“Giulio si è costruito questa porticina. Si chiudeva qua dentro, con i suoi amici. Ci stavano ore. Sistemava tutta l’apparecchiatura sul tavolo da cucina ereditato dalla nonna Letizia. E componeva la musica. Aveva messo anche la gommapiuma insonorizzante, ma il problema erano i bassi, le vibrazioni si sentivano comunque”
Anna, Giulio, Dario
Anche nell’assenza, Giulio si svela attraverso le sue tracce, è come se abitasse ancora la casa. E finalmente lo vediamo. Lo vediamo proprio come è stato un tempo, nel ritratto che gli ha fatto sua madre.
Anche Dario, che abbiamo solo intravisto, ci sembra un po’ di conoscerlo attraverso le sue opere e gli oggetti sparsi per la casa.
Ad Anna piace condividere gli spazi. E noi la vediamo adattarsi. Al colore delle pareti, agli oggetti degli altri, al cambio di stanza, alle presenze che vengono da fuori. Fa pensare all’acqua che cambia forma a seconda del contenitore in cui è messa senza per questo cambiare la sua essenza. È una cosa che ti rende libero. Dovrei imparare da lei, mi dico. Che lo vogliamo o meno, il luogo in cui viviamo è un ambiente in continuo movimento, come il quartiere in cui è inserita.
“Alla fine, non cambierei casa” ci dice, senza che glielo chiedessimo.
Lo prendiamo come un commento sulla vita in generale: a prescindere dalle cose che avrei voluto fare diversamente, non cambierei niente.
Ci piace.
Amate la leggerezza fisica e metaforica? Fate un pavimento bianco in resina a cuor leggero, se lo macchiate o vi stufate, basta una mano di vernice. Come nuovo!
Ma che belle le maniglie dell’armadio in camera da letto e del mobile in cucina: nuovi pomelli applicati su mobili antichi... agli occhi più attenti potrebbero raccontare una storia!
Come non amare il mobile-lavatrice? Anna insegna: per rinnovare un vecchio mobiletto può bastare una mano di colore e, perché no, una poesia. Purché non si sappia di cosa si tratta :)
Aria pura in luogo privato
Anna è un’artista, è abituata a pensare in modo creativo, le soluzioni pratiche questa volta le ha suggerite lei. Dato che Giulio non usa più il vano ripostiglio al piano mansardato per comporre musica, si potrebbe aprire proprio in quel punto per ospitare un piccolo terrazzino. I vicini ce l’hanno e non ostruirebbe la vista di nessuno. Da grandi amanti di terrazzi e terrazzini non possiamo che essere d’accordo: sarebbe stupendo in una casa così avere anche un piccolo spazio esterno privato, dove potersi rilassare, leggere, mangiare in compagnia o prendere il sole l’estate... Ci inviterà?
Aria!
A detta di Anna la casa è un po’ umida e le è venuta un’idea. Certo, non è un’idea economica e ottenere i permessi non è affatto scontato, ma se fosse possibile perché non aprire delle finestrelle in salotto, in alto, lungo la parete senza finestre che confina con il giardino dei vicini, per aggiungere un po’ di ventilazione alla stanza? Noi diciamo sì!
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