Testo: Lorenza Gentile, la scrittrice
Foto: Bianca Rizzi, l’architetta
Matilde è un’artista eclettica e fantasiosa, ma anche un’architetta concreta.
La sua installazione per Manifesta 12 (Palermo, 2018) consisteva in un’esplosione di foglietti di carta colorati, simili a coriandoli, sparati al centro dei Quattro Canti, addobbati con drappi di velluto su cui era ricamata l’immagine di santi cristiani con elementi prestati alla tradizione induista. L’allestimento per l’archivio della Fondazione Feltrinelli di Milano progettato da lei è invece molto minimalista, così come quello a supporto della recente mostra della galleria di Massimo De Carlo alla Triennale Milano. Ha esposto al Victoria and Albert Museum, alla Biennale di Architettura di Venezia, al MAXXI, e progettato allestimenti per esposizioni in musei e istituzioni altrettanto rinomate.
Col suo gusto e stile personale Matilde riesce ad apparire una cosa e il suo opposto. Possiamo incontrarla tanto vestita con maglietta e pantaloni di colori neutri, quanto avvolta in tessuti glitter e metallizzati.
È una persona accessibile, con cui la conversazione viene facilmente, eppure dà l’impressione che ci sia un universo nella sua testa e che stia sempre, in qualche modo, creando.
Luce e ombra, candore e precisione sono solo alcuni degli elementi del cocktail che, per noi, rappresenta Matilde.
Una personalità piena di sfaccettature come quella della sua mansarda.
Entriamo in un palazzo simpatico, che dà su una piazzetta piena di vita nel cuore di Porta Venezia e che ha all’interno, come quasi tutte le case di ringhiera di Milano, un assetto asimmetrico. Il cortile è occupato da due edifici terracielo, di cui uno in particolare cattura la nostra attenzione. È una strana costruzione a sé stante, dall’aspetto quasi gotico, che sembra completamente estranea al contesto e comunica un’aria di mistero. Scopriremo in seguito che, adattandosi alle esigenze del quartiere, è stata sede di svariate attività, tra cui un night per scambisti, e la cosa non ci stupisce così di tanto… Solo un po’. Adesso è un bed and breakfast di lusso. Ci rallegriamo guardando su: a contrasto con queste sensazioni un po’ ombrose, notiamo che quasi tutti hanno messo i fiori sulle ringhiere. Un edificio un po’ strambo e un po’ felice. Ci piace.
Che quella di Matilde sia una mansarda un po’ sui generis, ce ne accorgiamo già in ascensore: vive al piano quattro e mezzo. Impossibile non pensare a Essere John Malkovich prima di premere il pulsante che, per fortuna, in questo caso esiste; nessun bisogno di forzare l’apertura con una spranga per infilarsi tra un piano e l’altro. Una volta arrivate in cima ci tranquillizziamo: i soffitti sono dell’altezza giusta. Anzi, di più. Pur avendo utilizzato l’ascensore, abbiamo salito due mezze rampe di scale, prima e dopo. Ancora non lo sappiamo, ma è un’introduzione metaforica perfetta a questa casa fatta di metà.
Le due metà
Matilde ci accoglie in quella che sembra una mansarda tipica - travi a vista, abbaini, ambienti raccolti - ma basta superare la prima colonna per scoprire una vetrata enorme che nessuna delle due si aspettava. Non riesco a smettere di esclamare “Ma è bellissimo! È bellissimo!” come un disco rotto. Chi poteva aspettarselo? Matilde ci rivolge uno sguardo cordiale e quasi imbarazzato, chiedendoci se vogliamo bere qualcosa. Accettiamo, anche se la vista a dire il vero ci ha appagato.
La sensazione è quella di essere in due case allo stesso tempo. Ogni lato ha delle caratteristiche precise: un materiale predominante (vetro, legno) e un bagno di luce particolare. Comunicano sensazioni diverse. Da una parte ti senti catapultato nel mondo del cortile, senza armi per difenderti, a petto aperto. Dall’altra sei in uno spazio raccolto e, sempre che tu riesca ad arrivare a vedere fuori alla finestra, (noi ci serviamo del telefono come ai concerti), hai la vista che avrebbe un uccello sorvolando i tetti indisturbato. Un lato ti tira a sé, mentre l’altro ti spinge verso l’esterno. Niente di meglio che avere tutte e due le cose in una casa sola.
A garantire armonia e unità visiva, nota Bianca, il pavimento di legno. “Ho fortemente voluto questo pavimento in tutta la casa” racconta Matilde. “Una superficie unica, bagni compresi. È composto da pannelli di multistrato di okumè, un compensato marino. In realtà, avrei voluto che fossero ancora più grandi, ma non era possibile. La cosa interessante è che con la luce si schiarisce, quindi il colore cambia di stanza in stanza, di angolo in angolo, in base a come ci battono i raggi del sole. Non lo consiglierei a chi vuole un pavimento uniforme, anche perché non è affatto resistente, qualsiasi cosa lascia il segno, ma a me piace proprio per questo. Andrebbe vissuto a piedi nudi, un po’ come nelle palestre di yoga o le case giapponesi”. Se è un invito a farci togliere le scarpe, noi non ci tiriamo indietro…
Ma vogliamo sapere la storia dall’inizio. “Comincia dal principio” disse il Re ad Alice nel Paese delle Meraviglie “e continua fino alla fine, poi fermati”. Ecco, visto che siamo in una casa un po’ atipica, tanto vale citare le favole.
L’evoluzione del quartiere
“Ho trovato questa mansarda nel 2006. All’epoca si faceva ancora affidamento sugli annunci affissi ai portoni, così ho cercato in tutto il quartiere. Vivevo già in Porta Venezia da tanti anni e volevo rimanere qua. Mi piaceva moltissimo perché è multietnica, molto viva e ben collegata con il resto della città. La stazione Centrale è raggiungibile a piedi e io viaggio spesso”. Il fatto che Matilde viva in Porta Venezia da più di quattordici anni la rende un’osservatrice privilegiata sul cambiamento della zona. “Un tempo al posto dei tanti bar c’erano i mestieri: alimentari, ferramenta, lavanderie… L’identità etiope, inoltre, era fortissima. Negli anni il locale Elephant ha dato vita a quella che è diventata la sua identità LGBT. Da tre o quattro anni a questa parte la gentrificazione si è mossa velocissima. Ogni volta che esco di casa scopro un nuovo ristorante, un bar, un negozio. Da un lato sono contenta perché lo rende molto vivo, dall’altro lo sviluppo è talmente veloce che mi spaventa un po’: dove arriveremo? Forse stiamo esagerando? Per ora è molto bello. C’è sempre gente, anche di domenica e in agosto, quando la città si svuota. Hai la sensazione di essere in una sorta di comunità”.
Ci eravamo accordate solo per un sopralluogo, eppure abbiamo già il registratore acceso e un bicchiere di vino in mano. Sono appena le cinque, ma da qualche parte del mondo sarà pur l’ora dell’aperitivo!
La trasformazione della casa
“Prima che la ristrutturassimo, questa era una mansarda classica, con i tetti spioventi, a capanna. L’unica cosa che vedevi dalla finestra era il cielo. Era un’esperienza strana, interessante ma un po’ straniante”.
Al quarto piano e mezzo con vista nuvole, altro che favole.
“La casa era diversissima, molto anni ottanta. A terra c’erano delle piastrelle di cotto disposte a scacchi, le travi erano dipinte di finto legno... interessante, ma più una taverna”. Matilde ci ha vissuto per due o tre anni con il suo ex compagno, anche lui architetto, fino a quando il condominio non ha deciso di rifare il tetto del palazzo per esteso e loro, cogliendo la palla al balzo, l’hanno ristrutturata. “Il problema è che dopo aver scoperchiato il tetto, l’impresa ha fermato i lavori ed è sparita. Avevamo chiuso tutte le nostre cose nella camera da letto con l’idea di dover aspettare qualche mese, invece la casa è rimasta senza tetto per due anni. Ci viveva una colonia di piccioni. Non si poteva considerare neanche un appartamento. Ma quando siamo finalmente riusciti a cambiare ditta e riprendere i lavori è stato rapido. Abbiamo tenuto le pareti e uno dei mobili a specchio, per il resto è cambiato tutto”.
Gli oggetti di Matilde: amor sacro, amor profano
Gli scaffali della libreria sono popolati da un vero e proprio esercito di oggetti colorati. Io che pensavo di aver avuto per prima l’idea di collocare dei piccoli oggetti tra i libri a casa mia, mi faccio un bel bagno di umiltà: qui non ce n’è solo qualche d’uno, qui è un universo di fate e folletti. Anzi, meglio, di icone pop ed elementi religiosi, che convivono in modo curioso gli uni di fianco agli altri.
Tra Hello Kitty e un portachiavi a forma di infradito di gomma distinguiamo delle boccette per l’acqua di Santa Rosalia e una miniatura di Ganesh. Ci sono delle tavolette bene auguranti che vengono dal Perù e piccoli portafortuna giapponesi. Papa Francesco (“decapitato per sbaglio, ma non si vede”), statuette votive in terracotta, un piccolo Buddha dorato, una mucca di plastica scolorita, una candela a forma di cactus, un risciò in miniatura. Il tutto disposto casualmente davanti a pubblicazioni saggistiche, romanzi, riviste specializzate, cataloghi d’arte. Insomma, per me una libreria invidiabile.
Matilde ci spiega che soffre di innamoramenti dall’andamento ciclico, che informano il suo lavoro artistico. Accenna alla fase dell'arredamento urbano, ormai superata, a quella delle calamite a forma di generi alimentari, di cui le è rimasto poco, alla passione per il suo Tin Tin, alla fascinazione attuale per tutto ciò che in un modo o nell’altro appartiene alla dimensione rituale, in diversi ambiti culturali.
“Sono molto interessata alla spiritualità e alla scaramanzia, ormai da anni” ci spiega. “Mi piace decontestualizzare oggetti che provengono da quei mondi. La passione per le religioni è legata alla mia ricerca artistica e a una parte abbastanza grossa del mio lavoro. Mi interessa come il sacro o la spiritualità condizionano lo spazio architettonico”.
E interessa anche a noi! Al punto che stiamo lavorando a un'intervista ad hoc che pubblicheremo presto.
“Ho preso questo specchietto in svendita da Tiger Copenhagen. Per me non è importante il valore economico degli oggetti, quanto quello che mi comunicano. Mi piaceva molto, perché avrebbe potuto essere una mia creazione, così l’ho preso”.
"Proviene dalla galleria di Massimo De Carlo, è un’opera di John Armleder, Mind Breath I 2015, una serigrafia su una pellicola specchiata che tecnicamente si chiama specchio piuma. Io ho una passione per gli specchi e questo mi piace particolarmente perché mi ricorda un po’ il circo, un po’ il Messico. Mi fa pensare alla Madonnina che ho nella libreria, circondata da raggi di luce”.
“La statuetta di Tin Tin che vedete in realtà è prodotta in Africa. Mi piace che Tin Tin, simbolo culturale belga, sia stato reinterpretato in Congo e Senegal, dove si è diffuso questo tipo di artigianato. Hanno ereditato un elemento esterno traducendolo nella loro cultura. Ovviamente il ciuffo c’è”.
“È un piccolo braciere di Haiti per fare i riti woodoo io lo uso come posacenere. Mi piace decontestualizzare gli oggetti, lasciare che portino con sé le loro suggestioni nel mio ambiente domestico”.
“Bella idea!” dice Bianca indicando i ganci a cui sono appesi quadri e stampe. Matilde ci spiega che usa delle calamite molto potenti attaccate alle travi di ferro per ovviare alla mancanza di superfici verticali, problema tipico delle mansarde. “Tengono fino a cento chili, in teoria. Avrei voluto appenderci la palla da discoteca che vedete lì in un angolo, ma non me la sono sentita di fare la prova”. Ride.
Bianca nota che anche la libreria non è fissata al muro, ma è sostenuta da un meccanismo a pressione. “Questo è un vecchio edificio, dove un tempo c’era un camino quasi in ogni stanza” spiega Matilde, “i muri sono pieni di canne fumarie. Per questo quella parete non si può bucare”.
“Questa è una cucina Ikea normalissima. L’abbiamo personalizzata con maniglie prese da un altro contesto, forse dagli armadi per bambini, non ricordo, e abbiamo aggiunto il ripiano sopra perché lo volevamo più spesso”
“L’unica cosa su cui abbiamo investito in cucina sono i fornelli. Questo tipo si alza ed è molto comodo per tenere distanziate le pentole, nel caso se ne usino molte insieme, per pulire sotto o destinare il ripiano ad altri scopi”.
Il lato della vetrata
“Il progetto di ristrutturazione è stato fatto dallo studio del suo ex compagno, Francesco Librizzi. Abbiamo ripensato la casa completamente. Quello che è ora il bagno era la cucina, mentre l’attuale cucina era la parte del bagno che andava restringendosi per via del tetto spiovente. Abbiamo raddrizzato il tetto e creato la vetrata, ingrandendo il terrazzo. Idealmente, avrei voluto aprire sull’altro lato della casa, perché la vista è più bella, ma per via della conservazione storica non ce l’hanno permesso. In questa zona di Porta Venezia c’è un vincolo dato dagli edifici liberty. Essendo edifici di valore, anche quello che inquadrano con le loro finestre è considerato di valore e deve essere preservato. Abbiamo aperto qua, che inizialmente mi piaceva meno, ma poi ho imparato ad apprezzarlo, mi ci sono affezionata. Mi ricorda un po’ Beirut. E poi vedi la vita quotidiana delle persone, perché la maggior parte ha le stanze private sull’interno”.
Ci siamo spostate sul terrazzo, sto cercando di immaginare come sarebbe vivere qui. Non saprei davvero dove guardare, chi spiare, a chi affezionarmi… Bianca, con più spirito pratico, trova fantastico che la gente non ti riesca a osservare da sopra, essendo all’ultimo piano. Il quarto e mezzo, non ce lo dimentichiamo. Matilde sostiene che dal palazzo di fronte ti vedano benissimo, ma ha smesso di farci caso.
“La struttura in ferro sopra le nostre teste” dice, “è stata pensata per moltiplicare lo spazio, così che da dentro sembri di avere un’altra stanza fuori. Il tema è se ricoprirla di verde o metterci una tenda, magari retrattile, così da poter continuare a vedere il cielo. Per ora l’indecisione ha preso il sopravvento. E poi questo appartamento non ha allineamenti, è storto, le travi sono lunghissime e deformate, il soffitto non è piatto, ma ondulato... In generale, ci sono delle cose che vorrei ancora fare nell’appartamento, ma progettare casa propria è molto più difficile.”
Il lato della mansarda
“Quello che mi piace di questa casa oltre al fatto che è silenziosissima, una sorta di tana, è che è quasi tutta uno spazio aperto. Può essere scomodo, ma per me va bene. Hai la percezione di avere una casa molto più grande di quello che è in realtà. È grande per una persona, giusta per una coppia. Penso che in tre ci si starebbe stretti”.
Anche lei ha l’impressione che la zona giorno sia divisa in due e vive la parte con il terrazzo molto più dell’altra. “Da prima dei lavori, però, quindi non c’entra la vetrata”. Nel salottino sotto il tetto spiovente non va quasi mai. Addirittura, guarda la televisione seduta al tavolo da pranzo. Bianca le chiede della lampada rossa, trait d’union tra i due ambienti. “Si chiama Lampada 265 di Paolo Rizzato. È costruita sull’equilibrio, funziona come una bilancia: regoli il peso all’estremità solo dopo aver avvitato la lampadina. Mi piace perché è gigantesca, questo è l’unico posto in cui potrei metterla, però poi fa una luce da comodino. Non penso che me la porterò dietro nella nuova casa, perché non riesco a immaginare una lampada diversa in uno spazio come questo”.
“Vorrei cambiare la scrivania perché così chiude lo spazio. Ci vorrei mettere un divano letto tipo tatami oppure un tavolo tondo, perché adesso finisco per lavorare sempre al tavolo da pranzo, ma in effetti trovo strano mangiare e lavorare sullo stesso tavolo. Nonostante io abbia lo studio in zona, se devo scrivere per lavoro preferisco farlo a casa. Questo è un angolo intimo, mi piacerebbe viverlo meglio.”
“Questo minbar con il cuscino blu (nome che indica il pulpito nelle moschee, da dove l’imam tiene le prediche) è parte di un progetto intitolato Four Types of Minbars and their historical significance che ho fatto per la Biennale del 2018, per il Regno del Bahrein. Ho progettati quattro sedute ispirate al minbar, in base alla posizione che può assumere l’imam mentre fa la predica. Storicamente i minbar hanno forme diversissime. All’inizio era semplicemente una specie di podio, la posizione privilegiata dell’oratore, poi due scalini, poi una scaletta altissima, un’edicola, una sedia e alla fine a Milano, nella moschea di corso San Gottardo, ne ho trovato uno a forma di trono”.
“Questi due quadri sono una decalcomania di timbri che ha fatto una mia amica con i parcheggi di New York, ci sono affezionata. Vorrei portarli con me nella nuova casa”.
“Gli specchi mi piacciono tantissimo, li uso molto anche nei miei lavori. In questa casa sono fondamentali perché scompaiono ingrandendo lo spazio e donano un sacco di luce anche quando non c’è. Sono come un’immagine continuamente in movimento. Superfici illusorie, che non esistono”.
I cambiamenti
“È un sacco di tempo che non vivo stabilmente in questa casa” ci spiega, “durante il lockdown mi sono trasferita da Stefano, il mio fidanzato, e ho deciso di rimanerci, quindi la sto per dare in affitto per un anno. Tra due settimane la abiterà qualcun altro”. Le chiediamo come vive questo passaggio, ma non sembra turbata. “Sono contenta di trasferirmi da lui e la ragazza che verrà a vivere qui mi piace. Non devo svuotare la casa, quindi non lo sento come un distacco definitivo. Lascerò indietro molti dei miei oggetti, ma non mi dispiace. In fondo, si rinnovano continuamente. Cose che mi portavo a casa dieci anni fa adesso non le vorrei più. In questo momento questi sono i temi che mi interessano, non so cosa succederà poi”.
La possibilità di cambiamento ci sembra una costante nella vita e nella poetica di Matilde. È facile accorgersi di come, in questa casa, tutto sia propenso al movimento: molti degli elementi d’arredo sono mobili. Oltre alle due metà, la casa è un vasto insieme di possibilità. Gli specchi moltiplicano lo spazio con il loro riflesso, i ganci al soffitto si possono spostare, così come le stampe e i quadri possono cambiare, la lampada rossa può assumere una posizione diversa ogni volta, le foto su stampa lenticolare si trasformano a seconda di come le si guarda, i fornelli non sono fissi. Perfino le piante sono messe su portavasi con le ruote! Un inno all'impermanenza, ci sembra, al non essere mai una cosa soltanto, al non escludere niente. “Dev’essere gemelli come me”, commenta Bianca.
Siamo completamente immerse nell’universo di Matilde, ma il mondo ci reclama, basta una telefonata a rompere la magia. D’altra parte è quasi l’ora di cena. Siamo costrette a fuggire verso i nostri impegni quando saremmo volute stare ancora… e continuare a bere insieme a lei, ovviamente.
“Mi avete fatto finire la bottiglia da sola!” ci ha sgridato al telefono, il giorno dopo.
“Non ti preoccupare, recupereremo il giorno dello shooting”.
Ne porteremo due.
Esistono librerie fisse che non si attaccano alla parete. Libreria a pressione come questa! Noi la amiamo.
Belle le vetrate, ma se si surriscaldano? Esistono delle pellicole che filtrano la luce solare come quelle che ha applicato Matilde. Rendono anche il vetro più resistente.
Poco spazio alle pareti e tanti quadri, stampe, fotografie da appendere? Niente paura! Con i ganci a calamita risolvete ogni cosa, soprattutto se siete degli indecisi come noi. Certo, ci vogliono le travi di metallo al soffitto. Ma si può essere creativi anche in questo caso...
Anche una semplice cucina ikea può acquisire la sua allure, basta cambiare le maniglie. Chi l’avrebbe mai detto.
Anche l’occhio vuole la sua parte… specialmente negli spazi ridotti di una mansarda!
Matilde cerca una soluzione per lo spazio sotto il tetto spiovente, vorrebbe utilizzarlo, ma se lo chiudesse con un mobile la casa sembrerebbe subito più piccola. Perché non progettare un mobile su misura, basso, modulare ed estraibile per ottimizzare lo spazio di storage senza perdere la profondità visuale? Darebbe un senso di trasparenza che non bloccherebbe lo sguardo e i moduli potrebbero legarsi tra loro, in modo da essere estratti e spostati sia da soli che insieme.
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Testo: Lorenza Gentile, la scrittrice
Foto: Bianca Rizzi, l’architetta
Matilde è un’artista eclettica e fantasiosa, ma anche un’architetta concreta.
La sua installazione per Manifesta 12 (Palermo, 2018) consisteva in un’esplosione di foglietti di carta colorati, simili a coriandoli, sparati al centro dei Quattro Canti, addobbati con drappi di velluto su cui era ricamata l’immagine di santi cristiani con elementi prestati alla tradizione induista. L’allestimento per l’archivio della Fondazione Feltrinelli di Milano progettato da lei è invece molto minimalista, così come quello a supporto della recente mostra della galleria di Massimo De Carlo alla Triennale Milano. Ha esposto al Victoria and Albert Museum, alla Biennale di Architettura di Venezia, al MAXXI, e progettato allestimenti per esposizioni in musei e istituzioni altrettanto rinomate.
Col suo gusto e stile personale Matilde riesce ad apparire una cosa e il suo opposto. Possiamo incontrarla tanto vestita con maglietta e pantaloni di colori neutri, quanto avvolta in tessuti glitter e metallizzati.
È una persona accessibile, con cui la conversazione viene facilmente, eppure dà l’impressione che ci sia un universo nella sua testa e che stia sempre, in qualche modo, creando.
Luce e ombra, candore e precisione sono solo alcuni degli elementi del cocktail che, per noi, rappresenta Matilde.
Una personalità piena di sfaccettature come quella della sua mansarda.
Entriamo in un palazzo simpatico, che dà su una piazzetta piena di vita nel cuore di Porta Venezia e che ha all’interno, come quasi tutte le case di ringhiera di Milano, un assetto asimmetrico. Il cortile è occupato da due edifici terracielo, di cui uno in particolare cattura la nostra attenzione. È una strana costruzione a sé stante, dall’aspetto quasi gotico, che sembra completamente estranea al contesto e comunica un’aria di mistero. Scopriremo in seguito che, adattandosi alle esigenze del quartiere, è stata sede di svariate attività, tra cui un night per scambisti, e la cosa non ci stupisce così di tanto… Solo un po’. Adesso è un bed and breakfast di lusso. Ci rallegriamo guardando su: a contrasto con queste sensazioni un po’ ombrose, notiamo che quasi tutti hanno messo i fiori sulle ringhiere. Un edificio un po’ strambo e un po’ felice. Ci piace.
Che quella di Matilde sia una mansarda un po’ sui generis, ce ne accorgiamo già in ascensore: vive al piano quattro e mezzo. Impossibile non pensare a Essere John Malkovich prima di premere il pulsante che, per fortuna, in questo caso esiste; nessun bisogno di forzare l’apertura con una spranga per infilarsi tra un piano e l’altro. Una volta arrivate in cima ci tranquillizziamo: i soffitti sono dell’altezza giusta. Anzi, di più. Pur avendo utilizzato l’ascensore, abbiamo salito due mezze rampe di scale, prima e dopo. Ancora non lo sappiamo, ma è un’introduzione metaforica perfetta a questa casa fatta di metà.
Le due metà
Matilde ci accoglie in quella che sembra una mansarda tipica - travi a vista, abbaini, ambienti raccolti - ma basta superare la prima colonna per scoprire una vetrata enorme che nessuna delle due si aspettava. Non riesco a smettere di esclamare “Ma è bellissimo! È bellissimo!” come un disco rotto. Chi poteva aspettarselo? Matilde ci rivolge uno sguardo cordiale e quasi imbarazzato, chiedendoci se vogliamo bere qualcosa. Accettiamo, anche se la vista a dire il vero ci ha appagato.
La sensazione è quella di essere in due case allo stesso tempo. Ogni lato ha delle caratteristiche precise: un materiale predominante (vetro, legno) e un bagno di luce particolare. Comunicano sensazioni diverse. Da una parte ti senti catapultato nel mondo del cortile, senza armi per difenderti, a petto aperto. Dall’altra sei in uno spazio raccolto e, sempre che tu riesca ad arrivare a vedere fuori alla finestra, (noi ci serviamo del telefono come ai concerti), hai la vista che avrebbe un uccello sorvolando i tetti indisturbato. Un lato ti tira a sé, mentre l’altro ti spinge verso l’esterno. Niente di meglio che avere tutte e due le cose in una casa sola.
A garantire armonia e unità visiva, nota Bianca, il pavimento di legno. “Ho fortemente voluto questo pavimento in tutta la casa” racconta Matilde. “Una superficie unica, bagni compresi. È composto da pannelli di multistrato di okumè, un compensato marino. In realtà, avrei voluto che fossero ancora più grandi, ma non era possibile. La cosa interessante è che con la luce si schiarisce, quindi il colore cambia di stanza in stanza, di angolo in angolo, in base a come ci battono i raggi del sole. Non lo consiglierei a chi vuole un pavimento uniforme, anche perché non è affatto resistente, qualsiasi cosa lascia il segno, ma a me piace proprio per questo. Andrebbe vissuto a piedi nudi, un po’ come nelle palestre di yoga o le case giapponesi”. Se è un invito a farci togliere le scarpe, noi non ci tiriamo indietro…
Ma vogliamo sapere la storia dall’inizio. “Comincia dal principio” disse il Re ad Alice nel Paese delle Meraviglie “e continua fino alla fine, poi fermati”. Ecco, visto che siamo in una casa un po’ atipica, tanto vale citare le favole.
L’evoluzione del quartiere
“Ho trovato questa mansarda nel 2006. All’epoca si faceva ancora affidamento sugli annunci affissi ai portoni, così ho cercato in tutto il quartiere. Vivevo già in Porta Venezia da tanti anni e volevo rimanere qua. Mi piaceva moltissimo perché è multietnica, molto viva e ben collegata con il resto della città. La stazione Centrale è raggiungibile a piedi e io viaggio spesso”. Il fatto che Matilde viva in Porta Venezia da più di quattordici anni la rende un’osservatrice privilegiata sul cambiamento della zona. “Un tempo al posto dei tanti bar c’erano i mestieri: alimentari, ferramenta, lavanderie… L’identità etiope, inoltre, era fortissima. Negli anni il locale Elephant ha dato vita a quella che è diventata la sua identità LGBT. Da tre o quattro anni a questa parte la gentrificazione si è mossa velocissima. Ogni volta che esco di casa scopro un nuovo ristorante, un bar, un negozio. Da un lato sono contenta perché lo rende molto vivo, dall’altro lo sviluppo è talmente veloce che mi spaventa un po’: dove arriveremo? Forse stiamo esagerando? Per ora è molto bello. C’è sempre gente, anche di domenica e in agosto, quando la città si svuota. Hai la sensazione di essere in una sorta di comunità”.
Ci eravamo accordate solo per un sopralluogo, eppure abbiamo già il registratore acceso e un bicchiere di vino in mano. Sono appena le cinque, ma da qualche parte del mondo sarà pur l’ora dell’aperitivo!
La trasformazione della casa
“Prima che la ristrutturassimo, questa era una mansarda classica, con i tetti spioventi, a capanna. L’unica cosa che vedevi dalla finestra era il cielo. Era un’esperienza strana, interessante ma un po’ straniante”.
Al quarto piano e mezzo con vista nuvole, altro che favole.
“La casa era diversissima, molto anni ottanta. A terra c’erano delle piastrelle di cotto disposte a scacchi, le travi erano dipinte di finto legno... interessante, ma più una taverna”. Matilde ci ha vissuto per due o tre anni con il suo ex compagno, anche lui architetto, fino a quando il condominio non ha deciso di rifare il tetto del palazzo per esteso e loro, cogliendo la palla al balzo, l’hanno ristrutturata. “Il problema è che dopo aver scoperchiato il tetto, l’impresa ha fermato i lavori ed è sparita. Avevamo chiuso tutte le nostre cose nella camera da letto con l’idea di dover aspettare qualche mese, invece la casa è rimasta senza tetto per due anni. Ci viveva una colonia di piccioni. Non si poteva considerare neanche un appartamento. Ma quando siamo finalmente riusciti a cambiare ditta e riprendere i lavori è stato rapido. Abbiamo tenuto le pareti e uno dei mobili a specchio, per il resto è cambiato tutto”.
Gli oggetti di Matilde: amor sacro, amor profano
Gli scaffali della libreria sono popolati da un vero e proprio esercito di oggetti colorati. Io che pensavo di aver avuto per prima l’idea di collocare dei piccoli oggetti tra i libri a casa mia, mi faccio un bel bagno di umiltà: qui non ce n’è solo qualche d’uno, qui è un universo di fate e folletti. Anzi, meglio, di icone pop ed elementi religiosi, che convivono in modo curioso gli uni di fianco agli altri.
Tra Hello Kitty e un portachiavi a forma di infradito di gomma distinguiamo delle boccette per l’acqua di Santa Rosalia e una miniatura di Ganesh. Ci sono delle tavolette bene auguranti che vengono dal Perù e piccoli portafortuna giapponesi. Papa Francesco (“decapitato per sbaglio, ma non si vede”), statuette votive in terracotta, un piccolo Buddha dorato, una mucca di plastica scolorita, una candela a forma di cactus, un risciò in miniatura. Il tutto disposto casualmente davanti a pubblicazioni saggistiche, romanzi, riviste specializzate, cataloghi d’arte. Insomma, per me una libreria invidiabile.
Matilde ci spiega che soffre di innamoramenti dall’andamento ciclico, che informano il suo lavoro artistico. Accenna alla fase dell'arredamento urbano, ormai superata, a quella delle calamite a forma di generi alimentari, di cui le è rimasto poco, alla passione per il suo Tin Tin, alla fascinazione attuale per tutto ciò che in un modo o nell’altro appartiene alla dimensione rituale, in diversi ambiti culturali.
“Sono molto interessata alla spiritualità e alla scaramanzia, ormai da anni” ci spiega. “Mi piace decontestualizzare oggetti che provengono da quei mondi. La passione per le religioni è legata alla mia ricerca artistica e a una parte abbastanza grossa del mio lavoro. Mi interessa come il sacro o la spiritualità condizionano lo spazio architettonico”.
E interessa anche a noi! Al punto che stiamo lavorando a un'intervista ad hoc che pubblicheremo presto.
“Ho preso questo specchietto in svendita da Tiger Copenhagen. Per me non è importante il valore economico degli oggetti, quanto quello che mi comunicano. Mi piaceva molto, perché avrebbe potuto essere una mia creazione, così l’ho preso”.
"Proviene dalla galleria di Massimo De Carlo, è un’opera di John Armleder, Mind Breath I 2015, una serigrafia su una pellicola specchiata che tecnicamente si chiama specchio piuma. Io ho una passione per gli specchi e questo mi piace particolarmente perché mi ricorda un po’ il circo, un po’ il Messico. Mi fa pensare alla Madonnina che ho nella libreria, circondata da raggi di luce”.
“La statuetta di Tin Tin che vedete in realtà è prodotta in Africa. Mi piace che Tin Tin, simbolo culturale belga, sia stato reinterpretato in Congo e Senegal, dove si è diffuso questo tipo di artigianato. Hanno ereditato un elemento esterno traducendolo nella loro cultura. Ovviamente il ciuffo c’è”.
“È un piccolo braciere di Haiti per fare i riti woodoo io lo uso come posacenere. Mi piace decontestualizzare gli oggetti, lasciare che portino con sé le loro suggestioni nel mio ambiente domestico”.
“Bella idea!” dice Bianca indicando i ganci a cui sono appesi quadri e stampe. Matilde ci spiega che usa delle calamite molto potenti attaccate alle travi di ferro per ovviare alla mancanza di superfici verticali, problema tipico delle mansarde. “Tengono fino a cento chili, in teoria. Avrei voluto appenderci la palla da discoteca che vedete lì in un angolo, ma non me la sono sentita di fare la prova”. Ride.
Bianca nota che anche la libreria non è fissata al muro, ma è sostenuta da un meccanismo a pressione. “Questo è un vecchio edificio, dove un tempo c’era un camino quasi in ogni stanza” spiega Matilde, “i muri sono pieni di canne fumarie. Per questo quella parete non si può bucare”.
“Questa è una cucina Ikea normalissima. L’abbiamo personalizzata con maniglie prese da un altro contesto, forse dagli armadi per bambini, non ricordo, e abbiamo aggiunto il ripiano sopra perché lo volevamo più spesso”
“L’unica cosa su cui abbiamo investito in cucina sono i fornelli. Questo tipo si alza ed è molto comodo per tenere distanziate le pentole, nel caso se ne usino molte insieme, per pulire sotto o destinare il ripiano ad altri scopi”.
Il lato della vetrata
“Il progetto di ristrutturazione è stato fatto dallo studio del suo ex compagno, Francesco Librizzi. Abbiamo ripensato la casa completamente. Quello che è ora il bagno era la cucina, mentre l’attuale cucina era la parte del bagno che andava restringendosi per via del tetto spiovente. Abbiamo raddrizzato il tetto e creato la vetrata, ingrandendo il terrazzo. Idealmente, avrei voluto aprire sull’altro lato della casa, perché la vista è più bella, ma per via della conservazione storica non ce l’hanno permesso. In questa zona di Porta Venezia c’è un vincolo dato dagli edifici liberty. Essendo edifici di valore, anche quello che inquadrano con le loro finestre è considerato di valore e deve essere preservato. Abbiamo aperto qua, che inizialmente mi piaceva meno, ma poi ho imparato ad apprezzarlo, mi ci sono affezionata. Mi ricorda un po’ Beirut. E poi vedi la vita quotidiana delle persone, perché la maggior parte ha le stanze private sull’interno”.
Ci siamo spostate sul terrazzo, sto cercando di immaginare come sarebbe vivere qui. Non saprei davvero dove guardare, chi spiare, a chi affezionarmi… Bianca, con più spirito pratico, trova fantastico che la gente non ti riesca a osservare da sopra, essendo all’ultimo piano. Il quarto e mezzo, non ce lo dimentichiamo. Matilde sostiene che dal palazzo di fronte ti vedano benissimo, ma ha smesso di farci caso.
“La struttura in ferro sopra le nostre teste” dice, “è stata pensata per moltiplicare lo spazio, così che da dentro sembri di avere un’altra stanza fuori. Il tema è se ricoprirla di verde o metterci una tenda, magari retrattile, così da poter continuare a vedere il cielo. Per ora l’indecisione ha preso il sopravvento. E poi questo appartamento non ha allineamenti, è storto, le travi sono lunghissime e deformate, il soffitto non è piatto, ma ondulato... In generale, ci sono delle cose che vorrei ancora fare nell’appartamento, ma progettare casa propria è molto più difficile.”
Il lato della mansarda
“Quello che mi piace di questa casa oltre al fatto che è silenziosissima, una sorta di tana, è che è quasi tutta uno spazio aperto. Può essere scomodo, ma per me va bene. Hai la percezione di avere una casa molto più grande di quello che è in realtà. È grande per una persona, giusta per una coppia. Penso che in tre ci si starebbe stretti”.
Anche lei ha l’impressione che la zona giorno sia divisa in due e vive la parte con il terrazzo molto più dell’altra. “Da prima dei lavori, però, quindi non c’entra la vetrata”. Nel salottino sotto il tetto spiovente non va quasi mai. Addirittura, guarda la televisione seduta al tavolo da pranzo. Bianca le chiede della lampada rossa, trait d’union tra i due ambienti. “Si chiama Lampada 265 di Paolo Rizzato. È costruita sull’equilibrio, funziona come una bilancia: regoli il peso all’estremità solo dopo aver avvitato la lampadina. Mi piace perché è gigantesca, questo è l’unico posto in cui potrei metterla, però poi fa una luce da comodino. Non penso che me la porterò dietro nella nuova casa, perché non riesco a immaginare una lampada diversa in uno spazio come questo”.
“Vorrei cambiare la scrivania perché così chiude lo spazio. Ci vorrei mettere un divano letto tipo tatami oppure un tavolo tondo, perché adesso finisco per lavorare sempre al tavolo da pranzo, ma in effetti trovo strano mangiare e lavorare sullo stesso tavolo. Nonostante io abbia lo studio in zona, se devo scrivere per lavoro preferisco farlo a casa. Questo è un angolo intimo, mi piacerebbe viverlo meglio.”
“Questo minbar con il cuscino blu (nome che indica il pulpito nelle moschee, da dove l’imam tiene le prediche) è parte di un progetto intitolato Four Types of Minbars and their historical significance che ho fatto per la Biennale del 2018, per il Regno del Bahrein. Ho progettati quattro sedute ispirate al minbar, in base alla posizione che può assumere l’imam mentre fa la predica. Storicamente i minbar hanno forme diversissime. All’inizio era semplicemente una specie di podio, la posizione privilegiata dell’oratore, poi due scalini, poi una scaletta altissima, un’edicola, una sedia e alla fine a Milano, nella moschea di corso San Gottardo, ne ho trovato uno a forma di trono”.
“Questi due quadri sono una decalcomania di timbri che ha fatto una mia amica con i parcheggi di New York, ci sono affezionata. Vorrei portarli con me nella nuova casa”.
“Gli specchi mi piacciono tantissimo, li uso molto anche nei miei lavori. In questa casa sono fondamentali perché scompaiono ingrandendo lo spazio e donano un sacco di luce anche quando non c’è. Sono come un’immagine continuamente in movimento. Superfici illusorie, che non esistono”.
I cambiamenti
“È un sacco di tempo che non vivo stabilmente in questa casa” ci spiega, “durante il lockdown mi sono trasferita da Stefano, il mio fidanzato, e ho deciso di rimanerci, quindi la sto per dare in affitto per un anno. Tra due settimane la abiterà qualcun altro”. Le chiediamo come vive questo passaggio, ma non sembra turbata. “Sono contenta di trasferirmi da lui e la ragazza che verrà a vivere qui mi piace. Non devo svuotare la casa, quindi non lo sento come un distacco definitivo. Lascerò indietro molti dei miei oggetti, ma non mi dispiace. In fondo, si rinnovano continuamente. Cose che mi portavo a casa dieci anni fa adesso non le vorrei più. In questo momento questi sono i temi che mi interessano, non so cosa succederà poi”.
La possibilità di cambiamento ci sembra una costante nella vita e nella poetica di Matilde. È facile accorgersi di come, in questa casa, tutto sia propenso al movimento: molti degli elementi d’arredo sono mobili. Oltre alle due metà, la casa è un vasto insieme di possibilità. Gli specchi moltiplicano lo spazio con il loro riflesso, i ganci al soffitto si possono spostare, così come le stampe e i quadri possono cambiare, la lampada rossa può assumere una posizione diversa ogni volta, le foto su stampa lenticolare si trasformano a seconda di come le si guarda, i fornelli non sono fissi. Perfino le piante sono messe su portavasi con le ruote! Un inno all'impermanenza, ci sembra, al non essere mai una cosa soltanto, al non escludere niente. “Dev’essere gemelli come me”, commenta Bianca.
Siamo completamente immerse nell’universo di Matilde, ma il mondo ci reclama, basta una telefonata a rompere la magia. D’altra parte è quasi l’ora di cena. Siamo costrette a fuggire verso i nostri impegni quando saremmo volute stare ancora… e continuare a bere insieme a lei, ovviamente.
“Mi avete fatto finire la bottiglia da sola!” ci ha sgridato al telefono, il giorno dopo.
“Non ti preoccupare, recupereremo il giorno dello shooting”.
Ne porteremo due.
Esistono librerie fisse che non si attaccano alla parete. Libreria a pressione come questa! Noi la amiamo.
Belle le vetrate, ma se si surriscaldano? Esistono delle pellicole che filtrano la luce solare come quelle che ha applicato Matilde. Rendono anche il vetro più resistente.
Poco spazio alle pareti e tanti quadri, stampe, fotografie da appendere? Niente paura! Con i ganci a calamita risolvete ogni cosa, soprattutto se siete degli indecisi come noi. Certo, ci vogliono le travi di metallo al soffitto. Ma si può essere creativi anche in questo caso...
Anche una semplice cucina ikea può acquisire la sua allure, basta cambiare le maniglie. Chi l’avrebbe mai detto.
Anche l’occhio vuole la sua parte… specialmente negli spazi ridotti di una mansarda!
Matilde cerca una soluzione per lo spazio sotto il tetto spiovente, vorrebbe utilizzarlo, ma se lo chiudesse con un mobile la casa sembrerebbe subito più piccola. Perché non progettare un mobile su misura, basso, modulare ed estraibile per ottimizzare lo spazio di storage senza perdere la profondità visuale? Darebbe un senso di trasparenza che non bloccherebbe lo sguardo e i moduli potrebbero legarsi tra loro, in modo da essere estratti e spostati sia da soli che insieme.
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