Testo: Lorenza Gentile, la scrittrice
Foto: Bianca Rizzi, l'architetta e foto del cantiere di Manuele Blardone
Andrea e Gaia sono una forza. Sono belli, interessanti, curiosi e appassionati. Sono coerenti: agiscono in base a quello in cui credono. È raro trovare persone così. La cosa che più ci ha più colpito, oltre ai loro entusiasmanti racconti di viaggio, è la grande libertà di pensiero, gli alti ideali che onorano ogni giorno, combinati però a un atteggiamento empatico e di apertura verso gli altri, senza pregiudizi. Siamo state a trovarli sui monti liguri, dove abitano, immersi nella natura, dopo aver abbandonato Milano. Una scelta di vita forte che ci ha subito incuriosite. Soprattutto, siamo andate per visitare lo studio che hanno autocostruito con l’aiuto di due architetti e un gran numero di amici e appassionati. Una storia che non potevamo non raccontare.
L’arrivo allo studio
Saliamo in macchina per una strada ripida e stretta, pregando di non incontrare auto in senso contrario. Il paesaggio diventa sempre più bello. È nella sua veste migliore, quella primaverile. La valle sembra non finire mai. Salendo ci domandiamo chi abita in queste terre così vicine ai centri urbani eppure così remote. Persone nate qui? Quanti hanno avuto il coraggio di fare come Andrea e Gaia?
Parcheggiata la macchina nella piazzetta del paese, siamo convinte di essere arrivate. Non sappiamo invece che mancano un bel po’ di gradini prima di raggiungere casa loro. E finalmente, immerso tra gli alberi, vicino all’orto, lo vediamo: il suo studio.
Andrea ci viene incontro con un bel sorriso aperto e vedendoci sudate e ansimanti ci vuole subito rifocillare, offrendoci acqua e, con orgoglio, le verdure del suo orto. Ci sediamo sui muretti a secco tra i terrazzamenti davanti a casa sua, sui quali si inserisce lo studio. Dopo aver recuperato le energie, seguiamo Andrea attraverso l'orto, di cui ci mostra i progressi e le varietà di semina. Riescono quasi a evitare di fare la spesa, ci spiega. Noi siamo ammiratissime. A parte la pasta e il riso, il resto lo producono loro o lo scambiano con i vicini. All’entrata dello studio notiamo subito l'ulivo integrato alla balconata, che quasi entra nella costruzione. Andrea ci racconta che è stato uno dei momenti in cui è stato necessario improvvisare durante l’autocostruzione. Non avevano un progetto preciso, ma idee in movimento che prendevano vie che non avevano pensato e per questo nel suo libro, Andrea la chiama un'architettura jazz, con un'alta dose di improvvisazione e spontaneità oltre che di adattamento all'imprevedibile. Adattarsi alla natura ha i suoi “costi”. Inizialmente, infatti, lo studio doveva essere più grande, ma non avevano considerato l'ulivo. Tagliarlo e proseguire con il progetto iniziale o adattare il progetto a quel nuovo elemento? Andrea non ci ha pensato due volte. "Abbiamo deciso che lui si trovava lì già da molto tempo. Noi eravamo i nuovi arrivati. Così abbiamo modificato il disegno del tetto, lasciando che l'ulivo entrasse letteralmente dentro la struttura".
Una scelta di vita
“Abbiamo cercato il tempo” ci racconta Andrea. Accogliendoci dentro il suo studio fatto davvero, si può dire, su misura. “Ho lasciato Milano nel momento migliore per la mia carriera, quando le cose andavano bene. Avevo un contratto a tempo indeterminato con una casa editrice, insegnavo all’università, mi si aprivano davanti grandi prospettive…”. Rimaniamo appese a un filo, lo guardiamo nella speranza che continui. “Ho lasciato tutto per avere più spazio, più libertà e, soprattutto, più tempo. Invece che mettere da parte i soldi, ho voluto mettere da parte il tempo”.“Non posso non pensare alla canzone di Caetano Veloso, Oração ao tempo” dice Bianca, “la conoscete? La amo”. Ce ne canta un pezzo in portoghese e poi ce lo traduce.
"(...) In modo che il mio spirito
Ottenga una lucentezza definita
Tempo, tempo, tempo, tempo
E possa spargere benefici(…)”
Guardiamo il paesaggio illuminato dal sole pomeridiano, mentre Andrea ci racconta di suo padre, che non ha fatto che lavorare, con l’idea che di godersi finalmente la vita una volta in pensione. Invece è morto a quarantanove anni. Questo evento lo ha spinto a riflettere profondamente su quello che per lui contava davvero. Non vale la pena di vivere solo per il lavoro, ha deciso, nella continua corsa verso l’arricchimento, se poi non si ha il tempo di godersi ciò che si ha, ciò che conta davvero. È così che lui e Gaia hanno deciso di cambiare vita.
Lasciano Milano alla ricerca di un posto immerso nella natura. Perché casa, per Andrea, che ha condotto svariate ricerche etnografiche in giro per il mondo e studiato il tema in ambito filosofico, non è solo lo spazio racchiuso dalle mura, ma anche lo spazio circostante. Come racconta nel suo libro La casa vivente, appena uscito per Add Editore (link). Inizialmente l’idea è quella di autocostruire la loro nuova casa da zero. Cercano dunque un terreno edificabile. Ma non è facile. Dopo due anni di ricerca, trovano la casa perfetta. È più piccola di quello che avevano immaginato ed è già in piedi. È una casa in pietra con un bel terreno ed è un’occasione. Decidono di rinunciare all’autocostruzione e prendere quella. D’altra parte abitare ecologicamente significa, prima di costruire, fare recupero ecologico. Ripensare quello che c’è. Quella casa gli piaceva. E non avevano bisogno di costruirne un’altra.
“Invece che un mega finestrone avrei messo una doppia finestra, avrebbe coibentato meglio. Ma questa finestra veniva buttata via, è frutto quindi di autorecupero e non mi sembrava il caso di farne costruire altre al suo posto. Un po’ uno spreco, no?”
"Ho recuperato una vecchia porta che ho adattato e risistemato. La mia più grande soddisfazione."
La storia dello studio
“Il mio studio è nato dopo” ci racconta Andrea. “Alla casa era annesso un capanno per gli attrezzi osceno. Rovinava il paesaggio, era inquinante. Da lì, l’idea di crearmi un luogo protetto dove poter studiare, lavorare, leggere pur rimanendo immerso nell’ambiente circostante. Lo abbiamo costruito con la paglia, la terra, il legno e ha una bellissima vista sulla montagna. Così non mi sento separato dalla natura, ma in costante contatto con essa, in linea con la mia visione dell’abitare non antropocentrico”.
Andrea e Gaia hanno costruito una struttura a impatto zero, la loro preoccupazione principale era salvaguardare il territorio.
“Come sei arrivato all’idea di autocostruzione?” chiedo ad Andrea, mentre visitiamo lo spazio, che è caldo e accogliente, i muri smussati, i colori tenui, naturali, riposano lo sguardo e ti danno, in effetti, proprio la sensazione di essere tutt’uno con il paesaggio intorno. È rilassante. Andrea ci racconta di come quasi tutti gli oggetti qui dentro abbiano una storia. La maggior parte proviene dai suoi viaggi in giro per il mondo, anche i tessuti con cui è coperta la poltrona e i quadri. Ci sono libri ovunque, oltre che nelle librerie di larice (costruite da lui con gli scarti del legno utilizzato per la struttura). Adesso lo studio ha questa veste perché fa ancora freddo, ci racconta, ma se torneremo a trovarlo quest’estate, sarà diverso: non ci saranno il tappeto e tutti i tessuti che vediamo ora, che hanno la funzione di riscaldare l’ambiente.
“Ho scoperto l’autocostruzione durante la scrittura del mio saggio precedente (Abitare illegale, ndr), grazie ai miei studi e alle ricerche etnografiche che ho condotto in giro per il mondo".
Andrea ha ingaggiato due architetti esperti di autocostruzione tramite un’amica, con cui poi hanno legato moltissimo anche a livello personale.
Le due finestrelle accanto al finestrone di recupero, invece, hanno dei doppi vetri "home made".
"Questo muro l'ho appena sistemato. Visto che è molto esposto (a nord) si prendeva della belle secchiate d'acqua d'inverno, allora ho rifatto l'intonaco di terra e l'ho ricoperto con delle pietre trovate in zona, in modo che fosse più protetto." La casa è viva, come dice il titolo del suo libro. È in continua mutazione. C’è sempre qualcosa che si può fare per migliorarla e questo ne è un esempio.
L’autocostruzione
“La costruzione sarebbe potuta durare tre, quattro settimane, invece è andata avanti per qualche mese. Sarebbe stato sufficiente avere una squadra composta da un architetto e la famiglia che deve costruire, cioè noi due, come si fa di solito. Per il mio cantiere, in linea di massima, il numero perfetto sarebbe stato di sei o sette persone. Invece eravamo molti di più. È andata così perché ho voluto passare del tempo con le persone che volevano imparare; renderla un’esperienza collettiva, di conoscenza. Un cantiere scuola a tutti gli effetti. Abbiamo fatto pause pranzo lunghe e a volte anche qualche bagno al mare. Non è tipico dell’autocostruzione. Ci sono stati sei studenti di architettura, miei ex studenti di antropologia interessati al progetto, artisti interessanti alla terra come materiale, amici degli architetti autocostruttori, amici nostri curiosi di vedere il cantiere, due filosofi. Anche gli amici che gestiscono un bar giù in paese hanno voluto partecipare. Non avevano tempo di lavorare, ma venivamo la sera con una cassa di birra, per il gusto di stare insieme. Abbiamo generato molta curiosità nel paese. Gli abitanti non capivano cosa stessimo facendo, vedevano tutta questa gente strana andare e venire. Gli anziani, paradossalmente, afferravano meglio il concetto, ma la fascia di cinquantenni ci trattavano come se fossimo matti”.
Andrea e Gaia hanno allestito un campeggio nel loro podere e sistemato letti in casa, dove possibile, così da dare alloggio a chi era venuto per partecipare al cantiere. Parliamo di venticinque, trenta persone in totale per un periodo intensivo di due settimane. Del resto, le rifiniture, gli interni, gli intonaci della casa, la posa del pavimento, il tetto, si sono occupati Andrea e Gaia con i due architetti.
Bianca, da architetta, è rimasta folgorata. Le leggo nel pensiero ormai, so che avrebbe voluto essere la trentunesima persona in cantiere e che sta rimettendo in discussione tutto quello che ha sempre creduto in quest’ambito.
“L’autocostruzione, per me, dà senso all’immaginario. Costruisce parte dell’identità” continua Andrea. "Costruisce il sé. Dà forma, nella pratica, a quello che hai nella testa. La buona architettura non è preconfezionata. E poi non è così difficile, soprattutto se non è una villa. L’uomo è sempre stato un artigiano, homo faber, è la modernità che ci ha portato a essere homo comfort. È faticoso, è difficile, c’è bisogno di sapere condiviso. Bisogna imparare a conoscere i materiali, a relazionarsi con chi è preparato nella progettazione. Ma è bello ricominciare a utilizzare le mani, a modellare la materia. Farlo con gli amici, con la famiglia”. Usciamo all’aria aperta e facciamo il giro da fuori. “Come antropologo ho girato molto il mondo e ho avuto la fortuna di abitare in svariate case indigene. Ho visto spesso costruire e non da muratori specializzati. Quando sono stato in Nepal, per esempio, i terremotati mi hanno raccontato di come la ricostruzione avvenisse a livello familiare. Ho visto i bambini costruire. Non che venissero sfruttati, assolutamente. Erano semplicemente partecipi. Per loro era una specie di gioco, si divertivano. Guardando i bambini imparare è venuta voglia di imparare anche a me”.
"So non è bello, ma questa specie di barile era già qui, e io non butto quasi niente. L'ho fatto diventare un serbatoio per il recupero dell'acqua piovana, che poi uso per annaffiare l'orto."
I materiali
Lo studio è costruito su tre livelli. Il primo è la serra - semenzaio - attrezzaio. Il piano intermedio è lo studio vero e proprio, rialzato di 60 cm da terra per una questione di benessere e isolamento dal terreno umido. Il retro, esposto a nord, è una legnaia. Una volta piena, d’inverno, protegge l'interno dal freddo. Il pavimento della serra è fatto solo di terra, mentre quello dello studio, fatto da due strati di tavole di abete, intervallate da una membrana ecologica (comprata, ma biodegradabile) che impedisce all’umidità di penetrare e non disperde il calore. “Nel primo progetto volevamo fare un buco nel pavimento dello studio con una ventola di modo da far salire il calore della serra. Ma non ce n’è stato bisogno perché alla fine la stanza è davvero ben coibentata” ci spiega. “Il vetro della serra” specifica, “è la parte meno ecologica della struttura, perché contiene delle parti di plexiglass, per permettere ai semi di crescere”.
Le fondamenta della costruzione sono in castagno, la struttura portante è in larice, mentre gli interni sono in abete. C’è sempre anche un motivo economico dietro le scelte di Andrea e Gaia. La spesa principale è stata la scelta del legno di qualità. Il larice costa tantissimo, l’hanno comprato in una falegnameria di montagna di zona, che prevede il rimboschimento. Volevano essere coerenti. Una casa in castagno e larice può durare secoli, ma per risparmiare hanno dovuto integrare anche con l’abete. Non è un legno pregiato, ma avendolo usato solo per l’interno, ed essendo quindi protetto dalle intemperie, può comunque durare nel tempo.
Bianca chiede ad Andrea di parlarci della terra paglia, un materiale molto usato nella costruzione di questo studio. La terra paglia è un materiale ecologico, leggero, che coibenta molto bene (il muro è spesso, d’inverno basta scaldare poco, d’estate è fresco). In più, è un materiale sicuro, ci spiega Andrea, antisismico (una struttura in legno con intercapedini in paglia riesce ad armonizzare le scosse più del cemento armato), trattiene l’umidità ed è economico (soprattutto in una casa in cui si arriva solo a piedi e portare su il cemento sarebbe stato costoso e non ecologico). La terra era già sul posto, è bastato scavare appena trenta centimetri per trovare della buonissima argilla. L’hanno purificata setacciandola e trattandola con l’acqua, e poi mischiata alla paglia. Questo è stato il metodo più utile nel caso del suo studio, ma ce ne sono tanti altri.
Tutte le foto del cantiere, a seguire, sono state gentilmente concesse dal fotografo Manuele Blardone.
Qui si vede bene tutta la struttura. Le fondamenta sono in castagno. Sono state mineralizzate attraverso un processo naturale, semplicemente bruciandolo. La struttura portante è in larice. Grazie alla conoscenza degli architetti, Andrea ha scoperto (e ora anche noi scopriamo) che non era indispensabile che fosse trattato con l'antitarme, ma si poteva, anche qui, seguire un processo naturale. Se bruciati in superficie con un cannello, i listelli di larice reagiscono tirando fuori delle resine, che il legno ha già in sé, che lo proteggono delle tarme e da altri agenti naturali.
Il colore dei muri è dato dalla terra del posto, per scelta personale di Andrea. Il colore all’interno, invece, più giallognolo è stato creato con della terra apposta di quel colore, che ha fatto arrivare da altrove. Un concetto importante che ci tiene a trasmettere è che le case costruite in questo modo possono apparire anche identiche a quelle tradizionali, solo sono molto più ecologiche. Non devono avere necessariamente un aspetto “alternativo” come questo studio. Le possibilità di personalizzazione sono esattamente come le altre.
“È un ripensamento dell’abitare che può andare bene per tutti. Non se ne sente molto parlare perché la terra paglia non è stata inserita tra i materiali dell’ecobonus e il motivo è che non ci si può speculare - ancora - come con il resto”.
"Il mondo è al collasso” ci dice Andrea, facendosi serio. “Dobbiamo ripensarci, ripensare la nostra vita. Il termine abitare per me non si riferisce solo alla casa, ma anche a come ci muoviamo, come ci relazioniamo con l’ambiente. Il nord Europa è un buon esempio, non sono perfetti, ma sono più avanti di noi. È necessario ripensare le campagne e le città in modo ecologico per salvaguardare la nostra stessa vita, come quella dei nostri figli. Al momento, gli stiamo solo regalando l’impossibilità di vivere. Proprio per colpa di come abitiamo”.
Cosa può fare ognuno di noi? Gli chiediamo. Il cambiamento parte dalle piccole scelte, ci risponde. Non comprare cose con troppo packaging, boicottare il consumo inquinante, diventare consumatori critici. Evitare l’usa e getta, abbassare anche solo di un grado il riscaldamento in tutte le case. Queste piccole azioni individuali risulterebbero in un enorme cambiamento collettivo. “Il cambiamento è più facile di quello che pensiamo” conclude, “ci spaventa solo perché non lo pratichiamo”.
E noi non possiamo essere più d’accordo.
Per chi fosse interessato e volesse approfondire alcuni dei temi trattati in questo articolo, ecco un po' di consigli.
Approfondimento sul materiale costruttivo usato da Andrea, la casa di paglia:
Iniziative di autocostruzione in Italia, dove si può anche fare i volontari in cantiere:
https://www.ariafamiliare.it/home
Per rimanere aggiornati sui vari temi dell'architettura verde:
http://nemetonmagazine.net/blog/
Corsi di formazione:
Libri:
Architetture del dopo. Costruire con le piante: salice, canna, bambù, paglia.
Maurizio Corrado
Pianeta U.M.A.N.A.
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Testo: Lorenza Gentile, la scrittrice
Foto: Bianca Rizzi, l'architetta e foto del cantiere di Manuele Blardone
Andrea e Gaia sono una forza. Sono belli, interessanti, curiosi e appassionati. Sono coerenti: agiscono in base a quello in cui credono. È raro trovare persone così. La cosa che più ci ha più colpito, oltre ai loro entusiasmanti racconti di viaggio, è la grande libertà di pensiero, gli alti ideali che onorano ogni giorno, combinati però a un atteggiamento empatico e di apertura verso gli altri, senza pregiudizi. Siamo state a trovarli sui monti liguri, dove abitano, immersi nella natura, dopo aver abbandonato Milano. Una scelta di vita forte che ci ha subito incuriosite. Soprattutto, siamo andate per visitare lo studio che hanno autocostruito con l’aiuto di due architetti e un gran numero di amici e appassionati. Una storia che non potevamo non raccontare.
L’arrivo allo studio
Saliamo in macchina per una strada ripida e stretta, pregando di non incontrare auto in senso contrario. Il paesaggio diventa sempre più bello. È nella sua veste migliore, quella primaverile. La valle sembra non finire mai. Salendo ci domandiamo chi abita in queste terre così vicine ai centri urbani eppure così remote. Persone nate qui? Quanti hanno avuto il coraggio di fare come Andrea e Gaia?
Parcheggiata la macchina nella piazzetta del paese, siamo convinte di essere arrivate. Non sappiamo invece che mancano un bel po’ di gradini prima di raggiungere casa loro. E finalmente, immerso tra gli alberi, vicino all’orto, lo vediamo: il suo studio.
Andrea ci viene incontro con un bel sorriso aperto e vedendoci sudate e ansimanti ci vuole subito rifocillare, offrendoci acqua e, con orgoglio, le verdure del suo orto. Ci sediamo sui muretti a secco tra i terrazzamenti davanti a casa sua, sui quali si inserisce lo studio. Dopo aver recuperato le energie, seguiamo Andrea attraverso l'orto, di cui ci mostra i progressi e le varietà di semina. Riescono quasi a evitare di fare la spesa, ci spiega. Noi siamo ammiratissime. A parte la pasta e il riso, il resto lo producono loro o lo scambiano con i vicini. All’entrata dello studio notiamo subito l'ulivo integrato alla balconata, che quasi entra nella costruzione. Andrea ci racconta che è stato uno dei momenti in cui è stato necessario improvvisare durante l’autocostruzione. Non avevano un progetto preciso, ma idee in movimento che prendevano vie che non avevano pensato e per questo nel suo libro, Andrea la chiama un'architettura jazz, con un'alta dose di improvvisazione e spontaneità oltre che di adattamento all'imprevedibile. Adattarsi alla natura ha i suoi “costi”. Inizialmente, infatti, lo studio doveva essere più grande, ma non avevano considerato l'ulivo. Tagliarlo e proseguire con il progetto iniziale o adattare il progetto a quel nuovo elemento? Andrea non ci ha pensato due volte. "Abbiamo deciso che lui si trovava lì già da molto tempo. Noi eravamo i nuovi arrivati. Così abbiamo modificato il disegno del tetto, lasciando che l'ulivo entrasse letteralmente dentro la struttura".
Una scelta di vita
“Abbiamo cercato il tempo” ci racconta Andrea. Accogliendoci dentro il suo studio fatto davvero, si può dire, su misura. “Ho lasciato Milano nel momento migliore per la mia carriera, quando le cose andavano bene. Avevo un contratto a tempo indeterminato con una casa editrice, insegnavo all’università, mi si aprivano davanti grandi prospettive…”. Rimaniamo appese a un filo, lo guardiamo nella speranza che continui. “Ho lasciato tutto per avere più spazio, più libertà e, soprattutto, più tempo. Invece che mettere da parte i soldi, ho voluto mettere da parte il tempo”.“Non posso non pensare alla canzone di Caetano Veloso, Oração ao tempo” dice Bianca, “la conoscete? La amo”. Ce ne canta un pezzo in portoghese e poi ce lo traduce.
"(...) In modo che il mio spirito
Ottenga una lucentezza definita
Tempo, tempo, tempo, tempo
E possa spargere benefici(…)”
Guardiamo il paesaggio illuminato dal sole pomeridiano, mentre Andrea ci racconta di suo padre, che non ha fatto che lavorare, con l’idea che di godersi finalmente la vita una volta in pensione. Invece è morto a quarantanove anni. Questo evento lo ha spinto a riflettere profondamente su quello che per lui contava davvero. Non vale la pena di vivere solo per il lavoro, ha deciso, nella continua corsa verso l’arricchimento, se poi non si ha il tempo di godersi ciò che si ha, ciò che conta davvero. È così che lui e Gaia hanno deciso di cambiare vita.
Lasciano Milano alla ricerca di un posto immerso nella natura. Perché casa, per Andrea, che ha condotto svariate ricerche etnografiche in giro per il mondo e studiato il tema in ambito filosofico, non è solo lo spazio racchiuso dalle mura, ma anche lo spazio circostante. Come racconta nel suo libro La casa vivente, appena uscito per Add Editore (link). Inizialmente l’idea è quella di autocostruire la loro nuova casa da zero. Cercano dunque un terreno edificabile. Ma non è facile. Dopo due anni di ricerca, trovano la casa perfetta. È più piccola di quello che avevano immaginato ed è già in piedi. È una casa in pietra con un bel terreno ed è un’occasione. Decidono di rinunciare all’autocostruzione e prendere quella. D’altra parte abitare ecologicamente significa, prima di costruire, fare recupero ecologico. Ripensare quello che c’è. Quella casa gli piaceva. E non avevano bisogno di costruirne un’altra.
“Invece che un mega finestrone avrei messo una doppia finestra, avrebbe coibentato meglio. Ma questa finestra veniva buttata via, è frutto quindi di autorecupero e non mi sembrava il caso di farne costruire altre al suo posto. Un po’ uno spreco, no?”
"Ho recuperato una vecchia porta che ho adattato e risistemato. La mia più grande soddisfazione."
La storia dello studio
“Il mio studio è nato dopo” ci racconta Andrea. “Alla casa era annesso un capanno per gli attrezzi osceno. Rovinava il paesaggio, era inquinante. Da lì, l’idea di crearmi un luogo protetto dove poter studiare, lavorare, leggere pur rimanendo immerso nell’ambiente circostante. Lo abbiamo costruito con la paglia, la terra, il legno e ha una bellissima vista sulla montagna. Così non mi sento separato dalla natura, ma in costante contatto con essa, in linea con la mia visione dell’abitare non antropocentrico”.
Andrea e Gaia hanno costruito una struttura a impatto zero, la loro preoccupazione principale era salvaguardare il territorio.
“Come sei arrivato all’idea di autocostruzione?” chiedo ad Andrea, mentre visitiamo lo spazio, che è caldo e accogliente, i muri smussati, i colori tenui, naturali, riposano lo sguardo e ti danno, in effetti, proprio la sensazione di essere tutt’uno con il paesaggio intorno. È rilassante. Andrea ci racconta di come quasi tutti gli oggetti qui dentro abbiano una storia. La maggior parte proviene dai suoi viaggi in giro per il mondo, anche i tessuti con cui è coperta la poltrona e i quadri. Ci sono libri ovunque, oltre che nelle librerie di larice (costruite da lui con gli scarti del legno utilizzato per la struttura). Adesso lo studio ha questa veste perché fa ancora freddo, ci racconta, ma se torneremo a trovarlo quest’estate, sarà diverso: non ci saranno il tappeto e tutti i tessuti che vediamo ora, che hanno la funzione di riscaldare l’ambiente.
“Ho scoperto l’autocostruzione durante la scrittura del mio saggio precedente (Abitare illegale, ndr), grazie ai miei studi e alle ricerche etnografiche che ho condotto in giro per il mondo".
Andrea ha ingaggiato due architetti esperti di autocostruzione tramite un’amica, con cui poi hanno legato moltissimo anche a livello personale.
Le due finestrelle accanto al finestrone di recupero, invece, hanno dei doppi vetri "home made".
"Questo muro l'ho appena sistemato. Visto che è molto esposto (a nord) si prendeva della belle secchiate d'acqua d'inverno, allora ho rifatto l'intonaco di terra e l'ho ricoperto con delle pietre trovate in zona, in modo che fosse più protetto." La casa è viva, come dice il titolo del suo libro. È in continua mutazione. C’è sempre qualcosa che si può fare per migliorarla e questo ne è un esempio.
L’autocostruzione
“La costruzione sarebbe potuta durare tre, quattro settimane, invece è andata avanti per qualche mese. Sarebbe stato sufficiente avere una squadra composta da un architetto e la famiglia che deve costruire, cioè noi due, come si fa di solito. Per il mio cantiere, in linea di massima, il numero perfetto sarebbe stato di sei o sette persone. Invece eravamo molti di più. È andata così perché ho voluto passare del tempo con le persone che volevano imparare; renderla un’esperienza collettiva, di conoscenza. Un cantiere scuola a tutti gli effetti. Abbiamo fatto pause pranzo lunghe e a volte anche qualche bagno al mare. Non è tipico dell’autocostruzione. Ci sono stati sei studenti di architettura, miei ex studenti di antropologia interessati al progetto, artisti interessanti alla terra come materiale, amici degli architetti autocostruttori, amici nostri curiosi di vedere il cantiere, due filosofi. Anche gli amici che gestiscono un bar giù in paese hanno voluto partecipare. Non avevano tempo di lavorare, ma venivamo la sera con una cassa di birra, per il gusto di stare insieme. Abbiamo generato molta curiosità nel paese. Gli abitanti non capivano cosa stessimo facendo, vedevano tutta questa gente strana andare e venire. Gli anziani, paradossalmente, afferravano meglio il concetto, ma la fascia di cinquantenni ci trattavano come se fossimo matti”.
Andrea e Gaia hanno allestito un campeggio nel loro podere e sistemato letti in casa, dove possibile, così da dare alloggio a chi era venuto per partecipare al cantiere. Parliamo di venticinque, trenta persone in totale per un periodo intensivo di due settimane. Del resto, le rifiniture, gli interni, gli intonaci della casa, la posa del pavimento, il tetto, si sono occupati Andrea e Gaia con i due architetti.
Bianca, da architetta, è rimasta folgorata. Le leggo nel pensiero ormai, so che avrebbe voluto essere la trentunesima persona in cantiere e che sta rimettendo in discussione tutto quello che ha sempre creduto in quest’ambito.
“L’autocostruzione, per me, dà senso all’immaginario. Costruisce parte dell’identità” continua Andrea. "Costruisce il sé. Dà forma, nella pratica, a quello che hai nella testa. La buona architettura non è preconfezionata. E poi non è così difficile, soprattutto se non è una villa. L’uomo è sempre stato un artigiano, homo faber, è la modernità che ci ha portato a essere homo comfort. È faticoso, è difficile, c’è bisogno di sapere condiviso. Bisogna imparare a conoscere i materiali, a relazionarsi con chi è preparato nella progettazione. Ma è bello ricominciare a utilizzare le mani, a modellare la materia. Farlo con gli amici, con la famiglia”. Usciamo all’aria aperta e facciamo il giro da fuori. “Come antropologo ho girato molto il mondo e ho avuto la fortuna di abitare in svariate case indigene. Ho visto spesso costruire e non da muratori specializzati. Quando sono stato in Nepal, per esempio, i terremotati mi hanno raccontato di come la ricostruzione avvenisse a livello familiare. Ho visto i bambini costruire. Non che venissero sfruttati, assolutamente. Erano semplicemente partecipi. Per loro era una specie di gioco, si divertivano. Guardando i bambini imparare è venuta voglia di imparare anche a me”.
"Lo so non è bello, ma questa specie di barile era già qui, e io non butto quasi niente, allora l'ho fatto diventare il serbatoio per il recupero dell'acqua piovana che poi uso per annaffiare l'orto."
I materiali
Lo studio è costruito su tre livelli. Il primo è la serra - semenzaio - attrezzaio. Il piano intermedio è lo studio vero e proprio, rialzato di 60 cm da terra per una questione di benessere e isolamento dal terreno umido. Il retro, esposto a nord, è una legnaia. Una volta piena, d’inverno, protegge l'interno dal freddo. Il pavimento della serra è fatto solo di terra, mentre quello dello studio, fatto da due strati di tavole di abete, intervallate da una membrana ecologica (comprata, ma biodegradabile) che impedisce all’umidità di penetrare e non disperde il calore. “Nel primo progetto volevamo fare un buco nel pavimento dello studio con una ventola di modo da far salire il calore della serra. Ma non ce n’è stato bisogno perché alla fine la stanza è davvero ben coibentata” ci spiega. “Il vetro della serra” specifica, “è la parte meno ecologica della struttura, perché contiene delle parti di plexiglass, per permettere ai semi di crescere”.
Le fondamenta della costruzione sono in castagno, la struttura portante è in larice, mentre gli interni sono in abete. C’è sempre anche un motivo economico dietro le scelte di Andrea e Gaia. La spesa principale è stata la scelta del legno di qualità. Il larice costa tantissimo, l’hanno comprato in una falegnameria di montagna di zona, che prevede il rimboschimento. Volevano essere coerenti. Una casa in castagno e larice può durare secoli, ma per risparmiare hanno dovuto integrare anche con l’abete. Non è un legno pregiato, ma avendolo usato solo per l’interno, ed essendo quindi protetto dalle intemperie, può comunque durare nel tempo.
Bianca chiede ad Andrea di parlarci della terra paglia, un materiale molto usato nella costruzione di questo studio. La terra paglia è un materiale ecologico, leggero, che coibenta molto bene (il muro è spesso, d’inverno basta scaldare poco, d’estate è fresco). In più, è un materiale sicuro, ci spiega Andrea, antisismico (una struttura in legno con intercapedini in paglia riesce ad armonizzare le scosse più del cemento armato), trattiene l’umidità ed è economico (soprattutto in una casa in cui si arriva solo a piedi e portare su il cemento sarebbe stato costoso e non ecologico). La terra era già sul posto, è bastato scavare appena trenta centimetri per trovare della buonissima argilla. L’hanno purificata setacciandola e trattandola con l’acqua, e poi mischiata alla paglia. Questo è stato il metodo più utile nel caso del suo studio, ma ce ne sono tanti altri.
Tutte le foto del cantiere, a seguire, sono state gentilmente concesse dal fotografo Manuele Blardone.
Qui si vede bene tutta la struttura. Le fondamenta sono in castagno. Sono state mineralizzate attraverso un processo naturale, semplicemente bruciandolo. La struttura portante è in larice. Grazie alla conoscenza degli architetti, Andrea ha scoperto (e ora anche noi scopriamo) che non era indispensabile che fosse trattato con l'antitarme, ma si poteva, anche qui, seguire un processo naturale. Se bruciati in superficie con un cannello, i listelli di larice reagiscono tirando fuori delle resine, che il legno ha già in sé, che lo proteggono delle tarme e da altri agenti naturali.
Il colore dei muri è dato dalla terra del posto, per scelta personale di Andrea. Il colore all’interno, invece, più giallognolo è stato creato con della terra apposta di quel colore, che ha fatto arrivare da altrove. Un concetto importante che ci tiene a trasmettere è che le case costruite in questo modo possono apparire anche identiche a quelle tradizionali, solo sono molto più ecologiche. Non devono avere necessariamente un aspetto “alternativo” come questo studio. Le possibilità di personalizzazione sono esattamente come le altre.
“È un ripensamento dell’abitare che può andare bene per tutti. Non se ne sente molto parlare perché la terra paglia non è stata inserita tra i materiali dell’ecobonus e il motivo è che non ci si può speculare - ancora - come con il resto”.
"Il mondo è al collasso” ci dice Andrea, facendosi serio. “Dobbiamo ripensarci, ripensare la nostra vita. Il termine abitare per me non si riferisce solo alla casa, ma anche a come ci muoviamo, come ci relazioniamo con l’ambiente. Il nord Europa è un buon esempio, non sono perfetti, ma sono più avanti di noi. È necessario ripensare le campagne e le città in modo ecologico per salvaguardare la nostra stessa vita, come quella dei nostri figli. Al momento, gli stiamo solo regalando l’impossibilità di vivere. Proprio per colpa di come abitiamo”.
Cosa può fare ognuno di noi? Gli chiediamo. Il cambiamento parte dalle piccole scelte, ci risponde. Non comprare cose con troppo packaging, boicottare il consumo inquinante, diventare consumatori critici. Evitare l’usa e getta, abbassare anche solo di un grado il riscaldamento in tutte le case. Queste piccole azioni individuali risulterebbero in un enorme cambiamento collettivo. “Il cambiamento è più facile di quello che pensiamo” conclude, “ci spaventa solo perché non lo pratichiamo”.
E noi non possiamo essere più d’accordo.
Per chi fosse interessato e volesse approfondire alcuni dei temi trattati in questo articolo, ecco un po' di consigli.
Approfondimento sul materiale costruttivo usato da Andrea, la casa di paglia:
Iniziative di autocostruzione in Italia, dove si può anche fare i volontari in cantiere:
https://www.ariafamiliare.it/home
Per rimanere aggiornati sui vari temi dell'architettura verde:
http://nemetonmagazine.net/blog/
Corsi di formazione:
Libri:
Architetture del dopo. Costruire con le piante: salice, canna, bambù, paglia.
Maurizio Corrado
Pianeta U.M.A.N.A.
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